La bella lettera degli archeologi al presidente del Fai

Lettera aperta ad Andrea Carandini

Ripubblichiamo la lettera che il Presidente Ass.ne Naz.le Archeologi scrisse circa un anno fa al Presidente del FAI

Al Professor Andrea Carandini

Caro Collega,

ho letto con attenzione il suo editoriale “Principi e Belle Addormentate”, apparso un paio di giorni fa sulla pubblicazione del FAI, prima che si sollevassero le proteste da parte delle Guide Turistiche professionali.

Nel leggerlo ho subìto l’incanto ammaliante delle sue parole avvolgenti. Con orgoglio e fierezza Lei esibisce a ragione i numeri impressionanti del FAI e racconta la sua forza di mobilitazione. Ci parla della capacità di narrazione dei volontari, che presuppone conoscenza e passione di comunicare. Forse in un’inconscia tentazione autobiografica, Lei parla anche di prìncipi (i volontari del FAI che aprono le porte dei castelli fatati) e di belle addormentate nel bosco (il popolo evidentemente inteso come corpo ignorante e sonnolento che ai quei castelli non ha mai avuto accesso). Parole suadenti che rivelano però un vizio di lettura della società italiana, un difetto di concretezza e di realtà, un riflesso condizionato forse fisiologico per un nobile come Lei, che si appresta a festeggiare i suoi ottant’anni da privilegiato pensionato “retributivo”, figlio di Ministro, professore già a trent’anni, ordinario per quaranta, già Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e oggi alla guida del FAI. Ruoli di prestigio e di fama, che Lei ha conquistato sul campo per indubbi meriti che le vengono universalmente riconosciuti in ogni ambiente.

Cosa manca però – mi sono chiesto – nelle sue parole eleganti? C’è l’eredità, la passione, il dono, la pienezza, la gioia, la vocazione, la bellezza, la primavera; e persino la bidimensionalità, l’eradicazione, i prìncipi e le addormentate. Ma c’è anche tanta Costituzione: l’ambiente, il paesaggio, la cultura.

E allora cosa manca? Cos’è che rende queste sue parole fastidiosamente retoriche e stucchevoli per un paio di generazioni di storici dell’arte e archeologi italiani come me?

Caro Professore, manca un presupposto fondamentale: quello del lavoro. Ai suoi nobili castellani del volontariato manca evidentemente – o forse Lei fa finta di ignorarla – l’urgenza dell’oggi, l’istanza genuina della rivendicazione delle cose semplici. E’ come se Lei volesse arrivare all’articolo 9 della Costituzione senza fare i conti con i primi quattro. Nel suo racconto edulcorato manca l’istanza del lavoro. Tutta questa bellezza che Lei racconta diventa fastidiosa se rimane l’oggetto di una romantica passione da coltivare per diletto, diventa rabbia se non sa trasformarsi nell’opportunità di una professione per migliaia di persone che per anni si sono formate con impegno e sacrificio per acquisire competenze specialistiche. Tutta questa meraviglia che Lei vanta diventa arroganza generazionale se – in un settore che frutta al paese quasi 90 miliardi di euro nell’industria culturale e creativa, il 6% della ricchezza del Paese – la conoscenza viene intrappolata nella prigione eterna del volontarismo senza sbocciare mai nella prospettiva sana e fresca del lavoro retribuito, nella realizzazione personale di sentirsi pagati ancor prima che appagati.

“Cultura è Lavoro”, questo è lo slogan di una manifestazione promossa a Roma nel 2014 dall’Associazione Nazionale Archeologi, di cui sono presidente. Perché è il lavoro che manca in Italia, non la passione o la bellezza o la cultura o i turisti.

Dalle eburnee torri dei prìncipi forse non si avverte l’insulto quotidiano a migliaia di specialisti iperformati, stufi di essere sfruttati con lavori a buon mercato travestiti sotto forma di stages e tirocini, come quelli promossi di recente anche dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali con gli inaccettabili bandi dei “Giovani per la Cultura”.

Nessuno può aver nulla contro i volontari, ma nessuno usi la retorica del volontariato per legittimare una macchina ben congegnata che rischia di rivendicare lo sfruttamento sciacallo, con la storiella dei prìncipi e delle principesse, inghiottendo così i presupposti di uno sviluppo sano basato sulla bellezza del lavoro.

Ancora oggi, malgrado l’esistenza di una chiara normativa di riferimento, di lauree, specializzazioni, dottorati, post-dottorati, di corsi di abilitazione professionale e di alta formazione nelle discipline afferenti i Beni Culturali, con il sostegno meschino delle Istituzioni e delle più alte cariche dello Stato la conoscenza e la trasmissione del patrimonio culturale vengono per lo più considerate attività del mondo del volontariato e del dilettantismo. Salvo poi ipocritamente lamentarsi del fatto che l’Italia abbia addirittura il 40% di disoccupazione giovanile, il tasso più alto tra i Paesi OCSE.

E forse, a ben vedere, questo esito altro non è che un modo per riportare il patrimonio culturale e la cultura tutta al tempo della nobiltà sabauda, quando costituivano l’involucro elegante per celare la brutalità dei rapporti sociali e non lo strumento di promozione sociale affermato nella stessa Convenzione di Faro: un mondo fatto di “mecenati” e “popolo”.

La formazione universitaria, la conoscenza e la professionalità, caro Professore, dovrebbero creare sviluppo, buona occupazione ed essere retribuite in maniera adeguata, e non deliberatamente ignorate nel nome di una logica miope e superficiale. Questo patrimonio umano di competenze rischia oggi di essere annientato da politiche cieche alle quali Lei presta, in questo modo, il suo autorevole fianco.

Salvo Barrano

Presidente Associazione Nazionale Archeologi

Una risposta a “La bella lettera degli archeologi al presidente del Fai”

  1. Bella lettera.
    Ho visto un filmato ripreso da una trasmissione su Rai 1 (Porta a porta) dove era di scena il nostro Carandini.
    Il suo intervento riguardava il recente restauro della chiesa di Santa Maria di CERRATE (Puglia) ad opera del FAI.
    Avendo visto la chiesa con te una decina d’anni fa, prima del restauro, mi ha colpito l’entusiasmo spropositato di Carandini nel mostrare la ricostruzione di un piccolo altare barocco addossato a una delle colonne sul lato sinistro della chiesetta. Inutile dire che l’altare non c’entra niente col resto e che rovina totalmente la prospettiva che si ha della navata principale. Carandini ha precisato che l’altare era stato fatto demolire da non so che architetto e che il FAI l’ha ripristinato perché così “si può vedere come era veramente la chiesa”. No comment, per carità di patria.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.