Generoso mecenatismo o di elemosina padronale?

La patacca di Rialto: si scrive mecenati, si legge padroni

di Tomaso Montanari, Emergenza cultura, 14-9-2021

“OTB and Renzo Rosso / funded the restoration / of the Rialto Bridge / returning it to its magnificence / for the world to enjoy / OTB/ Only The Brave Foundation/october 2019”. È questa la scritta che campeggia sulla piastra d’ottone di ottanta per sessanta centimetri che è stata solennemente murata sul pavimento del Ponte di Rialto, mentre Cristiana Capotondi presentava, Andrea Bocelli cantava l’inno nazionale, il patriarca di Venezia benediceva e Brugnaro e Zaia si prendevano la scena.

Ma l’ironia veneziana ha subito partorito il logo di un immaginario comitato No Grandi Targhe. A indignare, la scelta della lingua (non italiano, non latino, non veneziano, ma uno scialbo inglese), del materiale (un vero pugno in un occhio sulla pietra d’istria del Ponte), delle dimensioni (più faraoniche che dogali): e, naturalmente, lo spazio trionfale concesso al marchio di una holding, appunto la OTB, che controlla i marchi di moda Diesel, Maison Margiela, Marni, Viktor & Rolf, Amiri, Jil Sander, Staff International oltre al club calcistico L.R. Vicenza. Insomma, il Ponte di Rialto è ora il monumentale piedistallo di un pacchianissimo cartellone pubblicitario permanente, pagato con i 5 milioni di euro offerti per il finanziamento del suo restauro. Renzo Rosso, il ‘mecenate’, ha replicato: “Bisogna guardare la bellezza di quello che è stato fatto. C’è sempre chi critica, ma a queste persone vorrei dire: perché non lo avete fatto voi?”.

Proviamo allora a prendere sul serio questa domanda da spaccone milionario, e chiediamoci perché non l’abbiamo fatto noi, questo restauro del Ponte di Rialto. Noi veneziani (come Comune), noi italiani (come Stato). Da decenni, lo Stato è in ritirata sul fronte della manutenzione del patrimonio culturale, e le finanze degli enti locali sono state massacrate al punto da non lasciare ai sindaci molta scelta. E così è iniziato il periodo dei ‘mecenati’. È una prospettiva assai diversa da quella dei costituenti, che immaginarono che la cultura sarebbe stata finanziata con soldi che si “troveranno non già nelle elargizioni di mecenati milionari, ma nelle finanze dello Stato che provvederà a premere nei giusti limiti e con le dovute gradazioni sulle private fortune; si troveranno nel concorde tributo di tutti i cittadini”. La progressività fiscale avrebbe preso i soldi dalle tasche dei ricchi per permettere allo Stato di mantenere i monumenti senza dover tornare a ringraziare i signori, come nell’antico regime. Ma oggi, dopo aver smontato la progressività fiscale e aver rimesso financo il governo della cosa pubblica nelle mani dell’aristocrazia finanziaria, lo Stato è povero, e alcuni pochissimi privati sono ricchissimi.

La retorica corrente paragona i mecenati di oggi a quelli celeberrimi della nostra storia dell’arte. Basterebbero il testo, il materiale e le dimensioni della patacca di Rialto per sorridere di questo paragone, ma la faccenda è seria. Prendiamo i Medici. L’obiettivo delle loro enormi donazioni allo Stato fiorentino era quello di prendersi lo Stato stesso: cosa che, alla fine, avvenne. Cosimo I cambiò il volto di Firenze e mise in piedi la più incredibile macchina mecenatistica della storia moderna europea: ma fu anche un tiranno sanguinario e inflessibile. Il più importante storico di questo fenomeno, l’inglese Francis Haskell, ha scritto che i mecenati italiani del Seicento “soffocarono la ribellione con la loro assoluta sicurezza nei valori ereditari”: “l’eterodossia fu uccisa dalla gentilezza”.

Oggi la posta in gioco non è la libertà degli artisti, ma la possibilità che il patrimonio culturale giochi dalla parte dei diritti, e non da quella dei privilegi; dalla parte della costruzione dell’uguaglianza, e non da quella della legittimazione dell’enorme, e crescente, disuguaglianza attuale. È giusto che un ricco imprenditore possa amplificare il suo punto di vista e i suoi affari anche grazie a un patrimonio culturale che appartiene pure ai cittadini più poveri, che comunque lo mantengono con le tasse? Quando consentiamo a qualcuno di marchiare il Ponte di Rialto la situazione ricorda la moneta di Augusto dove il supposto salvatore sta in piedi e la res publica è inginocchiata. In quella moneta il testo diceva una cosa, ma l’immagine denunciava il contrario: allo stesso modo i comunicati ufficiali di oggi parlano di nuovi mecenati, ma le immagini e i simboli rappresentano nuovi padroni. Quando prendiamo la decisione politica di non finanziare più il patrimonio culturale di tutti con i soldi di tutti (attraverso le tasse), ma di tornare all’epoca in cui pochi mecenati ‘pensavano per tutti’, non mettiamo nel conto un fattore fondamentale: “Che cosa succederebbe se, quando calcoliamo la produttività, l’efficienza, il benessere tenessimo conto anche della differenza tra un’umiliante elemosina e un beneficio fornito in quanto diritto? … Quanto siamo disposti a pagare per avere una società giusta?” (Tony Judt).

Una risposta a “Generoso mecenatismo o di elemosina padronale?”

  1. Viva Montanari. Ha sempre ragione. Spero che tenga duro con le due critiche e dpero che nonostante queste, la TV lo faccia lavorare nelle sue bellissime lezioni di storia dellArte

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