Dalla “razza italica” al “brand Italia”: i politici e i Beni Culturali

L’arte finisce come la Rai: nelle grinfie della politica

di Tomaso Montanari, Fatto Quotidiano 21-10-2019

Chi ha letto i giornaloni italiani e anche gran parte della stampa straniera, ha probabilmente potuto capire assai poco della disputa sul prestito dell’Uomo Vitruviano: che non ha nulla a che fare né col nazionalismo coltivato dalle destre, né con l’elitarismo degli storici dell’arte.

Con la consueta professionalità, è stato il New York Times a permettere ad uno dei contestatori di quel prestito (si tratta di chi scrive queste righe) di chiarire il vero punto della questione: “Italy’s patrimony is no longer the purview of scientists and technicians, but is in the hands of politicians, as it had been during the time of Mussolini”. Cioè il “patrimonio storico e artistico della nazione” (così l’articolo 9 della Costituzione) non viene più governato dalla comunità scientifica, ma è oggi nelle mani della politica. I musei, in altri termini, stanno facendo la fine del servizio pubblico della Rai.

È stato così per secoli, lo sappiamo: nell’antico regime le opere d’arte si spostavano come pedine sulla scacchiera della politica. Sovrani, papi, cardinali usavano arte e artisti a loro piacere: e la storia dell’arte nell’età moderna è anche la storia dell’attrito tra arte e potere, e del suo lento affrancamento. In Italia questa lunga tradizione ha conosciuto il suo momento estremo sotto il fascismo: Mussolini ha organizzato le più spettacolari mostre politiche della nostra storia, mettendo “Botticelli al servizio del fascismo” (è il titolo di un celebre saggio di Francis Haskell). Nel 1930 il duce in persona celebrò la stupefacente mostra di Londra (che aveva esportato capolavori di Michelangelo, Leonardo, Giorgione, Raffaello…) scrivendo sul Corriere della sera che “la mostra alla Burlington House è un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica, che le ha reso possibile di essere sempre e ovunque all’avanguardia, lasciando agli altri solo la possibilità di imitare”. Se sostituite a ‘razza italica’ espressioni come ‘brand Italia’, i vari Franceschini potrebbero usare le parole di Mussolini.

Con la Costituzione, che legava strettamente all’articolo 9 la ricerca e la tutela del patrimonio, si sperò di chiudere per sempre con questa strumentalizzazione politica della nostra arte, ma il vizio era troppo antico. Nel 1952 Roberto Longhi si doveva ancora augurare che lo Stato “ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite”. Perché, pensava Longhi, e pensa ancora la comunità internazionale degli storici dell’arte, il progresso coincide con la sottrazione alla logica effimera del consenso politico di un patrimonio delicatissimo, che dovrebbe semmai servire a sviluppare la nostra umanità. Ma non c’è stato nulla da fare, e così il governo Monti ha portato il Rinascimento a Pechino e Caravaggio a Belo Horizonte, il governo Renzi ha spedito Raffaello a Mosca per ringraziare Putin di un accordo sul gas, e oggi Dario Franceschini e il suo omologo francese hanno firmato un accordo politico per la mostra di Leonardo al Louvre (che, duole dirlo, non ha una sola novità scientifica, ed è un’umiliante parata di trofei di Stato). La prestigiosa Tribune de l’art ha parlato di “protocollo ridicolo, perché regola qualcosa che non è né dovrebbe essere al livello del potere politico, ma nelle mani dei musei e dei loro responsabili. Il ministro italiano, che pareva assai poco a proprio agio, ha voluto precisare ai giornalisti che ‘il prestito è competenza solo dei musei e delle autorità scientifiche’, ma aveva appena dimostrato il contrario con questo accordo politico tra Italia e Francia”.

Franceschini in tutto questo ha un ruolo particolarmente grave. Perché la sua scellerata riforma ha affidato i grandi musei italiani a direttori autonomi che hanno ricevuto un potere immenso dopo una selezione farsesca basata su colloqui di 15 minuti. Il fatto che, secondo la riforma, il ministro stesso possa confermare o meno in ruolo i direttori, li ha totalmente asserviti alla politica: così come sono asserviti i consigli scientifici dei musei, di nomina pure largamente politica. L’apparato centrale del ministero si è tolto quasi ogni possibilità di controllo sostanziale. La Direzione generale dei musei non si occupa di tutela, e il suo comitato scientifico è quello per l’economia della cultura: tanto per chiarire che per Franceschini i musei sono dei bancomat.

E la Direzione per le Belle Arti, che pure potrebbe e dovrebbe intervenire, lo fa solo per aderire ai prestiti decisi localmente, senza consultare il suo comitato tecnico scientifico (presieduto da chi scrive): così è avvenuto per l’Uomo Vitruviano.

Il massacro dell’alta dirigenza Mibac compiuto al tempo di Bondi e Berlusconi (i cui beneficiari sono ora tornati al potere con il ritorno di Franceschini), ha lasciato il patrimonio culturale in mano a “grandi equilibristi – per usare le parole sempre attuali di Antonio Cederna – disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare”.

Il paradosso è molto amaro: in uno Stato con la nostra Costituzione, la ragion di Stato dovrebbe coincidere con le ragioni della tutela e della ricerca. Ma dove Renzi non è riuscito, Franceschini ha avuto pieno successo: nel governo del patrimonio culturale ormai la Costituzione è un lontano ricordo.

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