Scuola: importa come insegnare o cosa insegnare?

Salvatore Settis, Scuola, la catena del sapere spezzata

I professori. Negli ultimi decenni è passato il principio in base al quale si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa. Così i contenuti si perdono, l’insegnamento diventa un rituale burocratico. Fra i tanti vaccini in giro, manca proprio quello oggi più urgente: il vaccino contro la politica personalistica, una peste berluscon-renziana. Se lo avessimo (e in dosi massicce) potremmo salvarci, tra l’altro, dal frivolo gioco di società detto “toto-ministri”. Quasi che, trovato il ministro, si risolvessero d’incanto i problemi dell’economia, della cultura, dell’ambiente, della sanità.

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Uno smacco a Parigi per Bernini e l’arte italiana

Il cavalier Bernini va a parigi

di STEFANO MALATESTA, La Repubblica,

NEL maggio del 1665 il sessantasettenne Gian Lorenzo Bernini, che fino ad allora non si era quasi mai mosso da Roma, arrivò in Francia accolto con onori simili a quelli che si rendevano ai principi del sangue. La sua scorta, pagata da Luigi XIV, era composta dal secondogenito dei suoi undici figli, dal suo disegnatore capo, da un aiutoscultore, da un cuoco, tre domestici, un corriere e il signor Mancini, corriere del Gabinetto reale.

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Ma i grandi musei sono in attivo? E il museo deve guadagnare? Come si mantengono Met e Louvre.

Nessun grande museo è “una macchina da soldi”. Tanto più se vuol fare soprattutto cultura.

Vittorio Emiliani in Articolo 21, 13 gennaio 2015

 

Uno degli slogan oggi più in voga per i nostri musei è questo: vanno sprovincializzati, vanno gestiti da manager, vanno resi redditizi, “macchine da soldi” più brutalmente (come disse tempo fa Matteo Renzi per gli Uffizi). Soldi, soldi, soldi, come in un famoso musical di Garinei e Giovannini, nel quale si citavano anche i romaneschi “papabraschi”, cioè i pagamenti a pronta cassa, fra Sette e Ottocento, della famiglia di papa Pio VI Braschi, promotore fra l’altro di Palazzo Braschi e del Museo Pio Clementino, i futuri Musei Vaticani.

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Amministrazioni e cultura: 5 Stelle e Lega

Come se la passa la cultura nelle amministrazioni di 5 Stelle e Lega Nord? Diamo un’occhiata

Le elezioni del 4 marzo ci hanno consegnato un risultato più che mai incerto e, a distanza d’una settimana dalla chiusura delle urne, ancora si fatica a comprendere quali potranno essere i futuri equilibrî in Parlamento: tuttavia, tra gli scenarî ancora ritenuti più probabili, figura quello di un’intesa tra Movimento 5 Stelle e Lega Nord.

Roma, la Fontana di Trevi. Ph. Credit Finestre sull'Arte

 

Probabile, ma difficile: intanto, perché i rispettivi leader hanno già escluso la possibilità di un’allenza. E poi, perché i programmi di Movimento e Lega divergono su molti punti chiave, e anche se dovesse andare in porto l’ipotesi d’un governo a trazione pentastellata e leghista, l’idea che un’operazione simile possa durare a lungo parrebbe aver a che fare più con la fantapolitica che con la realtà. Molto più probabile l’ipotesi che il futuro governo includa elementi dell’uno o dell’altro partito. Tuttavia, poiché si tratta d’una situazione inedita (non era mai accaduto che, a livello nazionale, i grillini oltrepassassero il 30% delle preferenze, né mai prima d’ora la Lega Nord era risultata il primo partito all’interno della coalizione di centro-destra), val la pena condurre un approfondimento, limitato al nostro ambito, per vedere come se la passa la cultura nelle amministrazioni di Movimento 5 Stelle e Lega Nord. Certo: il settore della cultura è quello dove i programmi di Lega e 5 Stelle prendono vie diverse, su molti punti opposte. Ed è anche vero che le logiche alla base dell’amministrazione d’un comune o d’una regione sono radicalmente differenti da quelle che entrano in gioco a livello nazionale. Ma analizzare ciò che pentastellati e leghisti hanno fatto per la cultura all’interno delle loro amministrazioni può essere utile per trarre elementi di valutazione.

Il Movimento 5 Stelle amministra quattro città capoluogo di provincia, di cui tre sopra i centomila abitanti (nell’articolo si terrà conto solo di queste): Roma, Torino, Livorno e Ragusa. A Roma, l’assessore Luca Bergamo, in passato vicino ai ranghi ulivisti ma considerato indipendente, è indicato da più parti come uno dei migliori assessori della giunta Raggi e ha avviato una politica volta alla democratizzazione della cultura, animata dall’idea che la cultura non equivalga al profitto e senza far mistero del fatto che le politiche culturali della città dovrebbero riguardare i cittadini prim’ancora che i turisti: vanno in tal senso alcune misure come l’introduzione d’una card per i residenti che, al solo costo di 5 euro, permette di visitare tutti i musei civici romani, il tentativo di “rivisitazione” di Zètema (la partecipata di Roma Capitale nel settore della cultura) come società di servizi ancillare al Comune e non come centro d’ideazione e di progettazione, l’interesse per gl’istituti alternativi (come il MAAM o il Teatro Valle), il progetto (ancora sulla carta) per l’accesso gratuito per tutti ai Fori Imperiali, la riorganizzazione degli spazî espositivi della città con la nascita d’un Polo del Contemporaneo capace di radunare il Macro nelle sue due sedi, il Palazzo delle Esposizioni e la Pelanda, il riassetto del sistema teatrale della città, con un’unica associazione a occuparsi di tutti i teatri comunali. I critici puntano il dito contro la propensione dell’assessorato alla crescita culturale (questo ufficialmente il nome) a voler puntare su mostre ed eventi di nicchia e a non investire in eventi di maggior richiamo turistico, contro un’attenzione ritenuta eccessiva verso gli spazî culturali occupati, e contro alcuni episodî come la chiusura del Teatro dell’Orologio, l’aver affidato a Giorgio De Finis la direzione de facto del Macro senza il ricorso a un bando (e tuttavia, al contrario, diverse star del cinema hanno firmato una petizione contro Bergamo per aver messo a bando piazza San Cosimato, già occupata dall’associazione Piccolo Cinema America, che l’aveva trasformata in un cinema all’aperto).

Ben peggiore, al limite del disastroso, sembra essere invece la situazione a Torino, dove ha fatto clamore la separazione tra l’Associazione Italiana degli Editori e il Salone del Libro, che ha comportato la nascita della fiera Tempo di Libri, con sede a Milano, e dopo che il Salone tuttavia già soffriva di diversi problemi, sia di natura finanziaria, sia in termini di numero di visitatori (la manifestazione ha avuto un’emorragia di visitatori a partire dal 2015, anche se sono nate numerose querelle intorno al metodo di calcolo dei dati ufficiali, dal momento che i dati precedenti il 2016 sommano biglietti venduti e altri titoli d’ingresso, come pass e abbonamenti. Il 2017 ha tuttavia registrato un aumento rispetto al 2016). Non solo: Torino ha infatti perso il Jazz Fringe Festival (che si è trasferito a Firenze), il Classical Music Festival (cancellato), la grande mostra su Manet (spostata a Milano, a Palazzo Reale, causa mancato accordo tra organizzatori e Comune) e diversi altri eventi. E ancora: l’assenza d’un programma di lungo termine sui musei e la latitanza di mostre di richiamo nazionale (l’unica nell’ultimo anno è stata forse quella su Miró a Palazzo Chiablese) hanno comportato, in controtendenza rispetto al resto d’Italia, cali diffusi che nel 2017 hanno provocato una diminuzione di circa 200.000 visitatori nei musei civici rispetto al 2016, con il record negativo della GAM che ha fatto segnare un crollo di centomila visitatori, del Museo Civico di Palazzo Madama che è riuscito a perdere circa novantamila visitatori in un anno, e del Museo d’Arte Orientale, che ha visto un calo di ventimila visitatori. E non è finita: s’è rischiata la chiusura della Biblioteca di Storia dell’Arte della GAM (al momento, per fortuna, scongiurata grazie a uno stanziamento della regione), e i vistosi tagli alla cultura decisi dalla Giunta Appendino (oltre 5 milioni di euro in meno solo per la Fondazione Torino Musei, il tutto per riequilibrare gli assetti finanziarî del bilancio comunale) hanno comportato 28 licenziamenti alla Fondazione Torino Musei (poi riassunti, metà dei quali grazie al contributo della regione per la biblioteca). Il bilancio è, insomma, decisamente negativo: mancano strategia e progettualità, manca una visione d’ampio respiro, manca la volontà d’investire nel settore (anzi, finora s’è tagliato), manca una figura forte all’assessorato alla cultura.

A Livorno, la giunta Nogarin ha puntato sui musei col suo primo assessore alla cultura, Serafino Fasulo, poi espulso a causa di problemi interni al Movimento 5 Stelle. L’azione è quindi proseguita col nuovo assessore, Francesco Belais che, al contrario di quanto avvenuto a Torino, ha fatto aumentare la voce relativa alla cultura nel bilancio comunale (si tratta, comunque, di cifre minuscole, sotto i duecentomila euro), ha riorganizzato il sistema bibliotecario della città promuovendo anche un riordino della Biblioteca Labronica, la principale del comune toscano, e inaugurandone una nuova, la Biblioteca Comunale del Polo Culturale Bottini dell’Olio (benché i lavori fossero cominciati già sotto la precedente amministrazione), e ha promosso l’istituzione d’un “Museo della Città”, finanziato con fondi regionali e destinato ad accogliere opere antiche e moderne entro un percorso che ripercorre la storia di Livorno, che aprirà proprio nel complesso dei Bottini dell’Olio (tuttavia l’apertura, prevista per fine 2017, è rimandata, benché i lavori siano in dirittura d’arrivo). Ai pentastellati di Livorno si rimprovera, tuttavia, la propensione a puntare su situazioni di scarso richiamo da fuori regione, e la scarsa inclinazione a portare turisti in città.

Più compatto appare invece il fronte leghista: in pressoché tutte le amministrazioni dove è presente un assessore alla cultura in forza al Carroccio (da annotare, tuttavia, il caso di Novara, guidata da un sindaco leghista, e dove però in giunta non figura un assessorato espressamente dedicato alle politiche culturali), la cultura è intesa sostanzialmente in termini di asset turistico e di insieme di tradizioni tipiche del territorio. Sintomatico il programma di Massimo Polledri, assessore alla cultura di Piacenza e leghista della prima ora (vanta una militanza nella Lega dal 1993), che, intervistato poco dopo la sua nomina dal quotidiano locale Libertà, dichiarava d’essere intenzionato a puntare sul marketing territoriale, sul “brand Piacenza” per rilanciare l’appeal turistico della città, sulla figura di Vittorio Sgarbi come consulente per gli eventi artistici. Tuttavia, finora gli unici risultati raggiunti in pochi mesi sono stati i tagli che hanno colpito soprattutto teatri e associazioni culturali, il drastico ridimensionamento di Piacenza Jazz Fest, e la cancellazione del Festival del Diritto, una rassegna che negli anni ha coinvolto numerosissime personalità della cultura italiana (sarebbe ozioso elencarle) e che nel 2018 avrebbe festeggiato i suoi dieci anni di vita.

La Lega, inoltre, amministra due grandi regioni dell’Italia settentrionale, la Lombardia e il Veneto. In Lombardia, l’assessore leghista Cristina Cappellini, posta alla guida della “Direzione Generale Culture, Identità e Autonomie” (e già il nome dell’istituto dice molto circa le visioni della Lega), s’è distinta per aver introdotto un interessante abbonamento regionale ai musei regionali e per aver investito circa 160 milioni di euro in cultura durante i cinque anni del suo mandato (com’è noto, lo scorso 4 marzo si sono tenute le elezioni per il rinnovo della giunta regionale lombarda, che hanno visto una nuova vittoria del centro-destra a guida leghista). I finanziamenti sono andati a progetti di recupero e restauro di beni culturali, a progetti di avvicinamento dei cittadini al patrimonio, a progetti di valorizzazione. Ma nel 2016 è stata anche approvata una legge regionale sulla cultura incapace di intervenire con forza su molti problemi del comparto (a cominciare dal lavoro e dalla conservazione), e tacciata dall’opposizione di eccessivo localismo (specialmente nella velleità di promuovere “la salvaguardia e la valorizzazione della lingua lombarda”) e di conservatorismo reazionario nel suo intendere la cultura come recupero dell’identità regionale. Cristina Cappellini s’è poi fatta riconoscere a livello nazionale per iniziative a dir poco discutibili e anacronistiche come lo Sportello Famiglia, ribattezzato dai detrattori “centralino anti gender” perché presentato come un servizio utile anche a “contrastare l’ideologia gender” (poi fortunatamente chiuso) o l’ormai celebre spot per il Family Day direttamente sulle finestre del Pirellone, oggetto di innumerevoli sberleffi sui social. Infine, in Veneto, si registra la presenza d’un “assessore al territorio, cultura, sicurezza e sport”, Cristiano Corazzari, la cui azione si è caratterizzata per l’idea di puntare sulle imprese culturali (proprio a novembre sono stati stanziati quasi 12 milioni di euro per le imprese che operano nella cultura), per la promozione d’un portale web dedicato ai beni culturali del Veneto, per gli interventi nell’ambito della promozione turistica.

Confusione, approssimazione e ignoranza: i programmi dei partiti di fronte ai Beni culturali…

Come parlano di beni culturali i partiti in lizza alle elezioni del 4 marzo? Abbiamo analizzato i programmi

Federici Giannini, Finestre sull’arte, 2-3-2018

È verosimile che ricorderemo la campagna elettorale che (finalmente) s’avvia verso la conclusione come la più squallida dell’intera storia repubblicana. E non soltanto per i toni ai quali le parti sono state in grado d’arrivare, ma anche per la sconfortante assenza di contenuti.

I principali partiti in lizza alle elezioni del 4 marzo 2018

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Pessima variante al Regolamento Urbanistico: si favorisce la speculazione e l’interesse privato

 

Ilaria Agostini, Dietro la facciata niente. Firenze dimentica il restauro

 

Tutelare o demolire? Conservare la scena urbana di Firenze, il brand che fa cassa, o favorire la speculazione immobiliare sull’edilizia storica? Un dubbio lacerante, ma la risposta è pronta: scavare case e palazzi, mantenerne le facciate e inserire al loro interno nuove strutture e nuove funzioni. È quanto prevede il documento di avvio di una Variante che introdurrà nel Regolamento Urbanistico fiorentino una pratica di intervento finora impedita dalla cultura del restauro e dal sistema di tutela nazionale.

Un po’ di storia. Nel 2017 i grandi cantieri nella città storica sono congelati in conseguenza di una sentenza della Corte di Cassazione (sez. Terza Penale, n. 6863) che censurava l’impiego della SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) per interventi di frazionamento edilizio e cambio di destinazione d’uso.

Per risolvere la situazione di stallo, il sindaco chiede aiuto a Roma. Roma risponde con la modifica al Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001). La modifica all’art. 3, apportata con un emendamento entrato in extremis nella “mini manovra” finanziaria (L 96/2017), inserisce nella categoria del “restauro” il mutamento della destinazione d’uso, purché compatibile e conforme alle previsioni di piano.

Il Piano Strutturale di Firenze sarebbe sufficientemente lasco per favorire i cambiamenti auspicati, eppure il Comune non si accontenta e rivendica maggior libertà per gli “investitori”. Ricorre dunque alla succitata Variante all’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del RU (dicembre 2017), che ha appena avviato il suo iter.

Tentiamo di illustrare la ratio che ispira la Variante. A causa delle modifiche al TUE, il restauro sarebbe divenuto una categoria d’intervento troppo ampia, persino pericolosa per gli edifici storici del «centro Unesco»: per la loro efficace protezione gli uffici devono perciò provvedere ad «aggiornare la definizione dell’intervento massimo ammissibile sul patrimonio» di valore storico. I tecnici zelanti individuano allora la «limitazione massima ammissibile» in una classe d’intervento ancor più “permissiva”: cioè nella ristrutturazione edilizia «“semplice” o “leggera”» prevista da un decreto legge, relativo peraltro esclusivamente a normare procedimenti amministrativi (DL 222/2016, all. A; dal quale allegato si coglie fior da fiore, omettendo tuttavia di assumere che nella ristrutturazione “leggera” possono rientrare i soli interventi che non «comporti[no] mutamento d’uso urbanisticamente rilevante nel centro storico», p. 84).

Insomma, è la tutela all’inverso. È l’abbassare gli argini, affermando di rafforzarli. Un’azione disorientante vòlta ad ampliare le manovre speculative.

Il trucco sta tutto nel porre «limitazioni» alla ristrutturazione edilizia, che, ricordiamo, consente un insieme di opere che «possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente» (lett. d), art. 3, TUE). A Firenze, le limitazioni si “limitano” alla salvaguardia integrale della sagoma e «sostanziale» della facciata. È tutto, o quasi. Si salvano solo «androni, corpi scale» e i solai qualora non siano «privi di interesse» [sic]. Da questo meccanismo sono esclusi gli edifici vincolati, naturalmente finché restano in vita le Soprintendenze.

È urgente dunque ostacolare l’iter della Variante, non ancora adottata. Chiamiamo perciò all’azione residenti e turisti, comitati e associazioni, università e istituzioni culturali, italiane ed estere, affinché questo pericoloso dispositivo possa essere bloccato, in nome della tutela del patrimonio urbano, unico e irripetibile. Patrimonio privato, pubblico, ma innanzitutto comune.

Università in smantellamento

Salvatore Settis, Gli Atenei accattoni svendono il sapere

 

Definanziando ricerca, laboratori, biblioteche, l’Italia si allontana dai Paesi civili divenendo serbatoio in cui pescare talenti: così studiosi di prim’ordine, formati a spese del contribuente, emigrano
L’ ospizio di mendicità meglio noto come “università italiana” fu inaugurato festosamente dal duo Tremonti-Gelmini fra leggi, tagli di bilancio, mortaretti e champagne. Prima di quel raid punitivo, all’università si riconoscevano pregi e difetti. Fra i pregi, un alto livello di produttività scientifica, vicino a quello di Paesi con ben maggiori investimenti di settore (pubblici e privati), e un’alta capacità formativa, di cui è prova la prestigiosa collocazione in tutto il mondo degli studiosi formati in Italia. Fra i difetti, una crescente auto-referenzialità e la tendenza al nepotismo di scuola e talora di famiglia.

I due picchiatori allora al governo, contando sulla passività di docenti e studenti, misero in atto un piano ben congegnato, perseguito in sostanza dai loro successori fino a oggi. Da un lato deplorare, con l’aiuto di accoglienti media, difetti e scandali delle università, reclamando l’urgenza di una riforma purificatrice. Dall’altro sbandierare la retorica delle eccellenze, attribuendone il merito a se stessi: alle riforme, a nuove procedure di valutazione, a nuove istituzioni, dall’Iit (Istituto Italiano di Tecnologia) di Berlusconi al Technopole di Renzi che dovrebbe giustificare post factum le spese pazze per l’Expo. La politica dell’università e della ricerca si svolge dunque ormai all’insegna dello slogan “abbasso le università, viva le eccellenze!”. In questa tenaglia, i tagli di bilancio che mortificano ricerca e didattica si trasformano d’incanto in saggia condanna degli sprechi e degli intrighi, anzi in paterni inviti alla virtù e alla penitenza rivolti a una classe accademica di per sé dedita al vizio e allo sperpero.

Definanziando la ricerca, i laboratori, le biblioteche, l’Italia si allontana dai Paesi più fortunati e civili, che vi vedono ormai un serbatoio in cui pescare talenti: studiosi di prim’ordine, formati a spese del contribuente italiano, emigrano a decine di migliaia in tutto il mondo, senza che a compensare questa emorragia intervenga un comparabile flusso in senso contrario. Fatti di palmare evidenza, che tuttavia sfuggono alla maggior parte dei cittadini. L’università italiana, che dovrebbe essere il luogo deputato della progettazione del futuro, si allontana pericolosamente non solo dai suoi omologhi dei Paesi più avanzati, ma anche dalla stessa società per cui nonostante tutto continua a lavorare.

E visto che di competitività si riempiono tutti la bocca, cominciamo da qui. Per essere competitiva, l’università deve rispettare alcune regole generali, le stesse in vigore nei Paesi con cui dovremmo confrontarci. Vediamone alcune. Primo, garantire la stabilità delle strutture, convogliando le migliori energie degli studiosi nella ricerca e nella produzione dell’innovazione. Secondo, rinnovare di continuo sia gli strumenti della ricerca (laboratori e biblioteche) sia il corpo di insegnanti, garantendone la qualità sulla base di una rigorosa considerazione del merito. Terzo, competere con le università dei Paesi comparabili assicurando salari e fondi di ricerca concorrenziali. Su questi tre fronti, l’Italia fa l’esatto opposto. La struttura delle nostre università è stata sconvolta da una riforma pedante e ottusa, che ha modificato la topografia delle discipline raggruppandole in Dipartimenti di estensione e contenuto sempre diversi, con nomi di fantasia che cambiano da una sede all’altra, per cui a esempio le vecchie, oneste Facoltà di Lettere e Filosofia ora sono dipartimenti di Studi Interculturali in una città, Civiltà e forme del sapere in un’altra, Studi Linguistici e Culturali in una terza. Un balletto di etichette a cui non corrisponde nessun progresso di conoscenza ma la moltiplicazione di organi, riunioni, regolamenti, adempimenti e impicci che consumano tempo ed energie costringendo chi vorrebbe far ricerca entro la camicia di forza di una miope burocrazia.

Le tortuosità del sistema vengono giustificate come garanzia di qualità e di trasparenza, ma è arduo dimostrare che quel che a Harvard si può verbalizzare in una pagina a Roma debba richiederne duecento. La verità è che la complessità dell’iter di accesso ai ruoli apre la porta a una valanga di ricorsi, e sempre più spesso a decidere chi va in cattedra non sono gli esperti (che giudicano nel merito), ma il Tar o il Consiglio di Stato (che guardano solo agli aspetti formali).

Su questo scenario sconfortante cala il pesante sipario di una valutazione sempre più ciecamente basata su criteri esterni e sempre meno sul merito delle singole ricerche. Un articolo scientifico viene valutato non per i risultati raggiunti in proprio ma in base alla qualità della rivista che lo pubblica: un mediocre articolo su una rivista “di fascia A” vale molto più di un ottimo articolo in una rivista di “fascia B”. La stolta idea che criteri esterni come questo siano più “obiettivi” del giudizio di merito si è imposta perché spoglia chi giudica di ogni responsabilità etica e professionale. Ma è proprio qui la debolezza intrinseca del sistema: perché l’università e la ricerca, in quanto luoghi supremi del pensiero e dell’innovazione, devono educare prima di tutto alla responsabilità, scientifica e morale. E vengono invece spinte ad abdicare a questa loro vocazione, essenziale per il futuro della società. La moltiplicazione del precariato, l’enorme difficoltà di inserimento dei giovani (anche i migliori), le alchimie interne ai Dipartimenti che spesso tendono a distribuire gli scarsi fondi e le poche cattedre secondo meccanismi non di qualità ma di potere, il continuo inseguimento di fondi aggiuntivi mediante criteri invariabilmente etichettati come “eccellenza” (una delle parole più inflazionate della lingua italiana): questi e altri meccanismi risentono di una sorta di aziendalizzazione dell’università, che ne erode la funzione culturale e sociale.

L’università nel suo insieme, le singole sedi e i loro dipartimenti, i docenti d’ogni grado sono tendenzialmente ridotti a un esercito di postulanti, che tendono la mano chiedendo l’elemosina di qualche decimo di punto organico, di qualche etichetta di “eccellenza”, di qualche spicciolo in più. Ma anche chi crede di vincere questa difficile battaglia fra poveri sta in verità perdendo la guerra: perché per conquistare qualche posizione avrà dovuto piegarsi alla cinica burocratizzazione di ideali e istituzioni come la scienza, l’insegnamento e la ricerca, che dovrebbero essere il luogo dove si coltiva e si esercita la piena libertà intellettuale, la formazione di uno spirito critico, la cittadinanza responsabile. Per centinaia di migliaia di studenti e di docenti l’università è ancora questo: quando tornerà a esserlo per il Superiore Ministero?

Salvator Settis, FQ | 27 febbraio 2018