Montanari decostruisce Bernini
Tomaso Montanari, “La libertà di Bernini”, Einaudi. Scandagliando acutamente fonti e documenti, il saggio ci restituisce un Gian Lorenzo campione, segreto, di libertà. Il tour-de-force critico è condotto in particolare sulle biografie storiche, alle quali si deve, soprattutto, la vulgata dell’«artista dei papi»
Il libro di Tomaso Montanari La libertà di Bernini La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi «Saggi», pp. XXIV-328, euro 42,00) invita a entrare nel mondo di Gian Lorenzo attraverso le crepe. Invita a non fermarsi alla consolidata immagine storiografica dell’artista dei papi e dei gesuiti, del cortigiano in perenne luna di miele con i suoi committenti, integrato perfettamente nella società del suo tempo, ricco onorato e blandito dai potenti d’Europa. Allargare le crepe di questa immagine storiografica significa innanzitutto affrontarne la genesi, chiedersi quanto essa sia radicata nella storia e quanto frutto di una costruzione consapevolmente orchestrata. Come dire: domandarsi da dove provenga quel ritratto di Bernini così efficace da aver resistito storiograficamente per secoli fino alla consacrazione novecentesca conferitagli da Roberto Longhi, Giuliano Briganti, Francis Haskell. Entrare anche nelle crepe di tale illustre storiografia per confutarne la contrapposizione ermeneutica tra una linea progressista, affidata essenzialmente alla figura di Caravaggio, e una controparte reazionaria incarnata da Bernini.
È così che Montanari si inoltra nella materia prima dalla quale è emerso un Bernini organico alle richieste della committenza, e talvolta in soggezione dei potenti, scandagliando innanzitutto la serie di antiche biografie dell’artista che quell’immagine sostennero. L’autore non è nuovo a questo genere di studi, anzi ne è uno dei protagonisti: profondo conoscitore delle fonti berniniane, questa volta raccoglie e potenzia i risultati della sua riflessione critica più che decennale sull’intreccio tra biografi di Bernini, contesto di elaborazione dei testi, destinatari degli stessi, sistema retorico di riferimento. Le biografie di Bernini – quella scritta da Filippo Baldinucci nel 1682, quella precedente di un anno del francese Pierre Cureau de La Chambre, quella del figlio dell’artista, Domenico Bernini, del 1713 – vengono messe a confronto tra di loro e con testi più antichi: il prezioso diario che registra le conversazioni di Bernini con Paul Fréart de Chantelou durante il soggiorno francese dell’artista nel 1665 e un più raro testo, che l’autore chiama proto-biografia, risalente al 1673, con Bernini ancora in vita, allestito dal figlio primogenito dell’artista, monsignor Pier Filippo Bernini, il quale redige un canovaccio documentario e interpretativo, con l’aiuto del fratello Domenico e del padre stesso, facendolo pervenire al biografo che sarebbe stato poi quello ufficiale, il fiorentino Baldinucci.
Visita all’«Apollo e Dafne»
L’analisi sulle differenze di narrazione circa un episodio preso a esempio, che è quello relativo all’accoglienza pubblica del gruppo dell’Apollo e Dafne della Galleria Borghese di Roma, mette in luce uno dei nessi più problematici tra libertà dell’artista, attese della committenza, possibile modo di soddisfarle. Il giovane Bernini ha infuso nel marmo della fanciulla mitologica la conturbante flagranza della carne viva e palpitante, troppo vera e troppo libera per passare inosservata. Non passa infatti inosservata: le biografie offrono il resoconto di una visita alla scultura, quando ancora si trovava nello studio dell’artista, fatta da tre personaggi: il committente dell’opera, Scipione Borghese, il cardinale Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, e il cardinale francese François d’Escoubleau de Sourdis. Il risultato del sopralluogo approda a una forma di moralizzazione dell’opera affidata al distico che ancora oggi si legge nel cartiglio del piedistallo, in cui si indirizza l’interpretazione verso un’edificante e alquanto malinconica riflessione circa l’inanità di inseguire il piacere materiale, sempre connessa al rischio di ritrovarsi a stringere tra le mani solo bacche amare, come quelle dell’albero di alloro che Apollo si ritrova a toccare per aver troppo desiderato il corpo della bella Dafne. Bernini accetta questa copertura d’intenzione soprammessa alla sua opera, che tuttavia lascia intatta nella sostanza formale.
Così comincia una storia destinata a ripetersi negli anni futuri: in altre occasioni le maglie della censura moralistica provano a imbrigliare la libertà espressiva di Bernini ed egli sembra assecondarle mentre di fatto ne riesce vincitore, cioè capace di lasciare inalterati i più profondi moventi artistici delle sue opere. Di questo episodio, i cui protagonisti, e specialmente il cardinale de Sourdis, sono il frutto di un’inedita ricostruzione di Montanari, l’autore fa una specie di conflitto occultato che percorre l’intera produzione di Bernini e che prefigura la sofferta dialettica tra storia reale delle opere e veste ufficiale che le accompagna, dal distico barberiniano alle biografie pubblicate. In proposito, egli si domanda perché in quelle biografie la preoccupazione dominante sia di natura difensiva, tale cioè da dissimulare i contrasti determinati dall’uscita pubblica delle opere; perché l’interesse principale della rappresentazione biografica ufficiale sia quello di fornire una versione pacificata dei conflitti, e perché Bernini stesso ne sia in parte responsabile, considerando il ruolo da lui svolto nella cosiddetta proto-biografia di Pier Filippo, che aveva certamente supervisionato di persona.
Pamphlet contro il «Costantino»
La risposta è un eccellente tour de force storico-critico dentro gli anni di elaborazione del meccanismo narrativo delle biografie: gli anni sessanta-ottanta del Seicento. Quali fossero i papi e quale la loro politica, quale fosse la storiografia dominante e di quali idee portatrice, quale il gusto collezionistico diffuso tra gli aristocratici, quali le convenzioni circa la gerarchia dei generi, ma soprattutto se esistesse una letteratura anti-berniniana rispetto alla quale giocare in difesa. Ed è qui che l’autore pubblica per intero, e discute analiticamente, uno dei testi più significativi, e gustosi, della libellistica denigratoria su Bernini. Si tratta del pamphlet anonimo dal titolo Il Costantino messo alla berlina, il cui oggetto precipuo è la statua equestre di Costantino ai piedi della Scala Regia in Vaticano, di cui si elencano tutti gli errori, essenzialmente di decoro, imputati a Bernini. Di fronte a simili attacchi, che si ritrovano anche negli avvisi pubblici della città, nella letteratura cortigiana e in altre fonti analizzate, si giustifica l’auto-rappresentazione santificata che i biografi di Bernini, ed egli stesso, contrappongono a una realtà tanto più eretica e indipendente. La quale, però, continua a vivere nelle opere: la lettura che l’autore ne offre e i confronti proposti tendono a rivalutare la radice naturalistica dell’arte berniniana, vicina a Caravaggio e a Rubens molto più di quanto possa sembrare.
Allo stesso modo, grande spazio è riservato all’atelier di Bernini, il luogo fisico dove egli scolpisce, disegna caricature irriverenti, allestisce rappresentazioni teatrali e dove riceve principi e mecenati in abiti da lavoro, imponendo la propria dimensione di artista non subordinato ad alcuna etichetta e anzi consapevole che non l’onore della visita dei potenti valga a nobilitare il proprio lavoro manuale, bensì sia vero il contrario. Sono i potenti che, entrando nella sua officina, godono il privilegio di un incontro ravvicinato con il processo creativo-materiale dell’opera d’arte. Non ultimo merito del libro è il coraggio bibliografico: spicca la preferenza per i titoli classici, anche di tipo letterario, che rimettono in circolo autori come Auerbach, per fare un solo esempio, in omaggio a una reale integrazione della storia dell’arte con la critica storico-letteraria, con evidente riscontro anche nel tipo si scrittura del libro, curata, elegante, di cristallina chiarezza. Il modo migliore per rendere omaggio all’affermazione finale della prefazione, in cui Montanari scrive che «la storia dell’arte è troppo importante per lasciarla tutta agli storici dell’arte».