Ripassiamo l’estasi di swanta Tersa di Bernini che abbiamo appena visto a Roma

La santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini: il capolavoro in Santa Maria della Vittoria a Roma

Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa

Se dovessimo scegliere un gruppo scultoreo che meglio d’ogni altro possa rappresentare il Seicento e il Barocco, molto probabilmente indicheremmo l’Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680):

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Che futuro per i Beni Culturali nel nuovo governo? L’ottimo programma del M5S sembra sparito dal contratto, ma qualche miglioramento potrebbe esserci

Governo Conte a trazione grillino-leghista, per la cultura si apre una partita inedita

“Alberto Bonisoli è una persona che ha portato avanti un obiettivo nei suoi anni di carriera: ha mirato a valorizzare il patrimonio di made in Italy che abbiamo, a valorizzare le eccellenze che abbiamo, e che in alcuni casi sono anche attrazione turistica. In generale è un profondo conoscitore sia del made in Italy, sia della bellezza italiana, ed è stato in grado di valorizzarla ai fini della creazione di lavoro, ma anche della promozione all’estero e in Italia. E credo che sia la sensibilità giusta per gestire un ministero così complesso e così importante”. Sono parole di Luigi Di Maio, che così presentava lo scorso primo marzo, in campagna elettorale, il nuovo ministro dei beni culturali, Alberto Bonisoli. È interessante partire dalle parole del nuovo vicepresidente del consiglio dei ministri perché è possibile leggervi tra le righe una sorta di convergenza di vedute tra l’idea di cultura che parrebbe avere il capo del Movimento 5 Stelle (e che è abbastanza lontana da quella che invece abbiamo avuto modo d’apprezzare nel programma del partito) e quella che la Lega Nord ha sempre propugnato. Cultura come “valorizzazione del patrimonio di made in Italy”, cultura come “valorizzazione delle eccellenze e delle attrazioni turistiche”, cultura come “bellezza italiana”. Il termine “valorizzazione” usato per tre volte in trenta secondi.

Alberto Bonisoli giura da ministro
Alberto Bonisoli giura da ministro

Ed è stata poi questa la linea su cui pentastellati e leghisti si son trovati d’accordo e che hanno inserito alla voce “cultura” nel contratto di governo. Occorre sottolineare che, di fronte all’evidenza del documento vergato da Di Maio e Salvini poco prima della formazione del governo Conte, viene meno qualunque vero tentativo di cambiamento (almeno per quanto riguarda il settore della cultura). Se l’azione del governo Conte seguirà davvero i propositi indicati dal contratto a pagina 16, possiamo pure star certi che non ci sarà alcun governo del cambiamento: per la cultura rimarrà tutto com’era, dal momento che il documento non s’allontana dalla logica della cultura come “strumento fondamentale per lo sviluppo del turismo in tutto il territorio italiano”, secondo la valutazione del testo redatto dai due partiti. Il capitolo sulla cultura s’apre infatti con la solita retorica spiccia del paese “colmo di ricchezze artistiche e architettoniche sparse in maniera omogenea in tutto il territorio”, ma ci si lamenta del fatto che l’Italia “non sfrutti a pieno le sue possibilità, lasciando in alcuni casi i propri beni ed il proprio patrimonio culturale nella condizione di non essere valorizzati a dovere”. È pur vero che il documento riconosce che i beni culturali contribuiscono anche “alla formazione del cittadino”, anche se viene specificato “in continuità con la nostra identità” (qualunque cosa questo nonsense evidentemente leghista voglia significare), ma la principale coalizione di governo sembrerebbe esser preoccupata soprattutto del fatto che “lo Stato non può limitarsi alla sola conservazione del bene, ma deve valorizzarlo e renderlo fruibile attraverso sistemi e modelli efficaci, grazie ad una gestione attenta e una migliore cooperazione tra gli enti pubblici e i privati”. Ed è verissimo che “tagliare in maniera lineare e non ragionata la spesa da destinare al nostro patrimonio, sia esso artistico che culturale [come se il patrimonio artistico non avesse un valore culturale, nda], significa ridurre in misura considerevole le possibilità di accrescere la ricchezza anche economica dei nostri territori”, ma è altrettanto vero che l’investimento in cultura, secondo il contratto, è funzionale soprattutto per attrarre turismo e numeri.

È una visione sostanzialmente simile a quella incarnata dalla linea Renzi-Franceschini: la cultura che viene tenuta in considerazione non in virtù del proprio valore intrinseco, per la sua capacità di far crescere i cittadini, di combattere il degrado, di stimolare la partecipazione, ma semplicemente in quanto mero strumento economico, attrattore per turisti, “motore di crescita”. Eppure non si può dire che le due forze di governo non abbiano ricevuto adeguate sollecitazioni dalla base, durante la campagna elettorale. E se la Lega Nord ha sistematicamente ignorato tali sollecitazioni, evitando accuratamente di far riferimento alle vere priorità del settore nel proprio programma, puntando quasi tutto sull’equazione “cultura uguale turismo”, e ponendosi anche come uno dei pochi partiti che non ha inviato neppure un rappresentante alla presentazione della proposta di legge per la regolamentazione del volontariato nei beni culturali, lo stesso non si può dire del Movimento 5 Stelle, che pure aveva nel proprio programma alcuni ottimi spunti, a cominciare dalla risoluzione dei problemi innescati dalla riforma Franceschini (si proponeva di tornare ad attribuire un ruolo significativo alle Soprintendenze), dalle iniziative per limitare la presenza del terzo settore nella gestione della cultura, dai propositi di ricognizione del fabbisogno di risorse per archivi e biblioteche, dalla proposta di revisione della legge Ronchey sui servizî aggiuntivi nei musei. Tutti argomenti che la Lega Nord non affronta nel suo programma: e il contratto di governo, tocca constatare, somiglia molto più al programma leghista che a quello grillino.

Da una parte, tuttavia, conforta che il ministro sia in quota pentastellata. Certo: è un manager, viene dal settore della moda, lavora nel campo dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e coreutica (AFAM), e non è ancora dato sapere quali cognizioni abbia dei problemi del nostro patrimonio (forse, Alberto Bonisoli sarebbe stato più indicato per il Ministero dell’Istruzione). Il suo profilo, dunque, apparentemente cozza col programma grillino: molto più simile a un Franceschini che, per esempio, a un Tomaso Montanari (faccio il nome dello storico dell’arte perché, come ha dichiarato in un articolo pubblicato sul numero di questa settimana di Left, lui stesso aveva considerato prima delle elezioni la possibilità d’accettare un incarico in un ipotetico governo, poi rifiutato a causa del profilarsi delle convergenze con la Lega Nord). Quindi, un ministro che potrebbe porsi in continuità con la linea dei governi Renzi e Gentiloni. C’è però anche da evidenziare che le dichiarazioni rese da Alberto Bonisoli il primo marzo, durante la presentazione della squadra di governo grillina, potrebbero celare qualche timida apertura al cambiamento: “il nostro patrimonio culturale non ha ricevuto negli anni un’attenzione e abbastanza risorse e investimenti da parte dei governi che evidentemente non sono stati capaci di valorizzare questo settore. Questa è la ragione per cui c’è una proposta complessiva di raggiungere un ammontare d’investimenti in questo settore che arrivi all’1% del PIL, ed eventualmente lo superi anche. Attraverso degli investimenti fondamentalmente di tre tipologie: un investimento di tutela dei beni culturali (è molto importante: noi abbiamo un enorme patrimonio che va protetto), un discorso di digitalizzazione (pensate solo all’impatto che potrebbe avere la digitalizzazione nella diffusione di una cultura di educazione artistica nelle scuole) e, ultimo ma non irrilevante, attraverso quella che si chiama ’cultura diffusa’, che sono le iniziative sul territorio. In particolare darei la priorità agli interventi mirati a ricreare una coscienza, un tessuto sociale nelle periferie urbane, perché la cultura può aiutare a superare il disagio sociale che c’è nelle nostre periferie”.

In altri termini, dalle parole di Alberto Bonisoli sembra di evincere che il neoministro abbia chiare alcune delle priorità fondamentali: aumento degl’investimenti (al momento la spesa per la cultura da parte dello Stato ammonta allo 0,8% del PIL, secondo dati Eurostat riferiti al 2016), spese per la tutela, digitalizzazione, periferie. Non s’è fatto però cenno al lavoro, al fatto che le strutture statali abbiano organici sottodimensionati, al fatto che occorrerebbe una seria lotta contro il precariato, al fatto che la cultura sia un settore dove abbonda l’utilizzo scriteriato del volontariato come surrogato del lavoro. E soprattutto, occorre verificare come il nuovo ministro si comporterà alla luce dell’alleanza coi leghisti, che all’epoca delle dichiarazioni sopra riportate non era ancora stata ufficialmente stabilita. Inoltre, ci sarà da valutare quale ruolo accorderà il governo Conte alla cultura: le discussioni che hanno preceduto la formazione del governo non hanno mai fatto riferimento al ministero della cultura. Segno che c’è comunità d’intenti tra le due forze e che il nome di Bonisoli non è mai stato messo in discussione, oppure segno che alla cultura non toccherà un ruolo rilevante nell’ambito dell’azione di governo? Qualunque sia la risposta, è facendo leva sui propositi del programma pentastellato, e sugl’iniziali intenti del nuovo ministro, che si potrà innescare, se non un cambiamento, almeno qualche sparuto progresso.

Il governo Conte, in sostanza, pone la cultura di fronte a una partita totalmente inedita. Mai s’era avuto, in Italia, un governo ritenuto populista. Mai, almeno negli ultimi tempi, le forze di governo avevano visioni così contrastanti sulla cultura. Mai avevamo visto l’Italia nelle mani di due partiti così incredibilmente incoerenti, pronti a cambiare non solo le strategie, ma addirittura le visioni, da un giorno all’altro. Sarà, insomma, una sfida. Di cui però adesso non si conoscono i termini. Anche perché non è detto che i partiti dello schieramento grillino-leghista non siano pronti a mutarle repentinamente e senza preavviso, come hanno dimostrato di fare a più riprese nei giorni della formazione del governo. Sarà, pertanto, una sfida molto difficile.

di , 2-6-2018

Si può essere vandali per amore? E che risultati porta? Un caso eclatante

Vandali per disperazione. Imbrattare per salvarci dal degrado?

La fontana di via Finelli a Carrara dopo l'azione degli street artist
La fontana di via Finelli a Carrara dopo l’azione degli street artist
A Carrara, una fontana è stata imbrattata per denunciare il degrado in cui versava. Il brutto può arrivare al punto da renderci vandali per disperazione?

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Una bella mostra per palati fini agli Uffizi sulla dialettica tra Italia e Spagna nei primi anni della Maniera

Un moderno dialogo tra Italia e Spagna in mostra nelle sale degli Uffizi

Alonso Berruguete, Madonna col Bambino detta Tondo Loeser

Alonso Berruguete, Madonna col Bambino detta Tondo Loeser (1513-1514; olio su tavola, diametro 83 cm; Firenze, Palazzo Vecchio, Collezione Loeser)

In un suo fondamentale saggio pubblicato nel 1985, il grande studioso inglese Michael Baxandall affermava che il problema della cosiddetta “influenza” è una sorta di maledizione per lo storico dell’arte. È una maledizione, sosteneva Baxandall (la seguente traduzione è dello scrivente), a causa del suo “erroneo pregiudizio grammaticale su chi sia l’agente e chi il paziente […]. Se qualcuno dice che X ha influenzato Y, sembra stia dicendo che X abbia fatto qualcosa su Y, e non che Y abbia fatto qualcosa nei confronti di X. Ma se pensiamo alle grandi opere e ai grandi artisti, è sempre vero il contrario. Ed è molto strano che un termine così incongruo giochi un ruolo tanto fondamentale, perché va in direzione contraria rispetto alla reale forza del lessico. Se pensiamo a Y invece che a X come all’agente, il vocabolario è molto più ricco è molto più piacevolmente diversificato: attingere, ricorrere, avvalersi di, appropriarsi di, adattare, equivocare, riferirsi, riprendere, assumere, relazionarsi con, fare ricorso a, reagire, citare, differenziarsi da, assimilare da, assimilare, allinearsi, copiare, indirizzarsi, parafrasare, assorbire, fare una variazione da, rip

S’è deciso di partire da Baxandall perché il terreno arato dal grande storico dell’arte più di trent’anni fa (e ancor oggi terreno di contesa) è quello su cui è stata seminata la mostra Spagna e Italia in dialogo nell’Europa del Cinquecento, allestita presso l’Aula Magliabechiana della Galleria degli Uffizi fino al 27 maggio e curata da Marzia Faietti, Corinna T. Gallori e Tommaso Mozzati. Alla base della rassegna, l’idea che nel sedicesimo secolo, e per l’esattezza nel periodo che comincia con le guerre d’Italia e prosegue sino almeno alla fine dell’età di Filippo II di Spagna (questo il lasso di tempo preso in esame dalla mostra), il Mediterraneo sia stato luogo di scambi fecondi tra Italia e Spagna avvenuti non secondo una prospettiva unidirezionale (o che, tutt’al più, abbiano prodotto risultati rigidamente inquadrabili in schemi a compartimenti stagni), ma in maniera vicendevole, aperta e continua. Di conseguenza, un primo problema è garantire una corretta collocazione al disegno degli artisti spagnoli e di quelli italiani dell’epoca, ma anche di quelli di qualsiasi altro luogo. Giova peraltro ricordare che Spagna e Italia in dialogo è soprattutto una mostra di disegni, in larga parte provenienti dal nucleo di disegni spagnoli degli Uffizi, risalente alla donazione, datata 1866, di Emilio Santarelli, lo scultore fiorentino che lasciò al museo migliaia di fogli d’artisti d’ogni luogo ed epoca. Affrontare questi argomenti significa, scrive Marzia Faietti, “ampliare constantemente gli orizzonti di ricerca, giungendo a sfiorare il punto di rottura della nozione di scuola […] senza tuttavia rinunciare al recupero filologico del tessuto artistico di un luogo specifico e all’analisi della trasmissione del sapere nelle diverse botteghe”. Consci dunque del fatto che la moderna storia dell’arte possa riconsiderare il concetto di “scuola nazionale” anche alla luce della “rivisitazione della nozione di stato nazionale in atto nell’ambito della storiografia” (continua Marzia Faietti rimandando agli studî di Hobsbawm), è possibile guardare ai temi della rassegna fiorentina secondo un’ottica più ampia e profonda.

Un secondo, considerevole problema consiste nella circoscrizione dell’aggettivo “spagnolo” in riferimento alle opere degli artisti iberici del Rinascimento: una questione ben rimarcata, nel suo saggio in catalogo, da Benito Navarrete Prieto, che si domanda se non sia più corretto parlare di “disegno in Spagna” piuttosto che di “disegno spagnolo”. Il punto è che nel Cinquecento, sottolinea Navarrete Prieto, “nei diversi laboratori artistici attivi nella penisola iberica nel Cinquecento, non rileviamo una vera evoluzione né alcuna continuità di pratiche”, al contrario di ciò che sarebbe successo nel Seicento, ma non solo: il Cinquecento fu un periodo di grandi trasformazioni e radicali cambiamenti in Spagna. La corona di Castiglia e quella d’Aragona si unirono de facto nel 1479, ma solo molto tempo dopo, con lo spostamento della capitale a Madrid, voluto da Filippo II, si formò una corte in grado di garantire omogeneità artistica al regno di Spagna (e per raggiungere l’obiettivo occorse comunque molto tempo, tanto che regionalismi e localismi sono ancora ben distinguibili per tutto il corso del sedicesimo secolo). S’aggiunga poi un paio d’ulteriori tasselli per dar forma a un quadro estremamente composito: la forte presenza d’artisti stranieri, soprattutto italiani e fiamminghi, e i soggiorni che gli stessi artisti spagnoli compivano in Italia riportando nelle terre d’origini spunti e suggestioni.

La mostra Spagna e Italia in dialogo nell'Europa del Cinquecento
La mostra Spagna e Italia in dialogo nell’Europa del Cinquecento

 

La mostra Spagna e Italia in dialogo nell'Europa del Cinquecento
La mostra Spagna e Italia in dialogo nell’Europa del Cinquecento

La mostra, del resto, prende avvio proprio da un viaggio in Italia: quello che Alonso Berruguete (Paredes de Nava, 1488 circa – Toledo, 1561), figlio del grande Pedro pittore di corte nella Urbino di Federico da Montefeltro, compì giovanissimo, tra il 1506 e il 1518, soprattutto a Firenze, senza però trascurare una parentesi a Roma. Le esperienze accumulate durante il soggiorno toscano trovano il loro apice nel cosiddetto Tondo Loeser, opera che assomma il fascino per le vigorose figure michelangiolesche (desunto da un appassionato studio della Battaglia di Cascina di Michelangelo) a evidenti suggestioni donatelliane, come attesta un foglio attribuito a Berruguete (benché in via dubitativa) che copia la Madonna delle nuvole di Donatello: anzi, si potrebbe quasi affermare che il Tondo Loeser rappresenti una sorta d’attualizzazione manierista dell’anticlassicismo donatelliano della Madonna “di Verona”, ponendosi, come notò Giuliano Briganti sviluppando uno spunto longhiano, “in chiaro anticipo su certi effetti stregoneschi del Rosso”. Proprio Berruguete fu uno tra i primi (oltre che tra i pochi) artisti spagnoli a utilizzare il disegno come mezzo per fissare quanto appreso dallo studio dei grandi contemporanei, come dimostra una copia del Profeta Daniele dalla Cappella Sistina (e da notare come il pittore castigliano, da gran conoscitore dell’anatomia umana, marchi i muscoli che s’intravedono sotto le vesti), e lo stesso dicasi per un suo contemporaneo, di una generazione successiva ma parimenti animato dalla volontà di far largo uso del medium grafico, Gaspar Becerra (Baeza, 1520 – Madrid, 1568), di cui la mostra espone una copia del Disma del Giudizio universale di Michelangelo.

Verso Roma s’orientarono le ricerche di Pedro Machuca (Toledo, 1490 circa – Granada, 1550), che nella sua Madonna col Bambino, san Giovannino e san Giuseppe della Národní Galerie di Praga, esposta per la prima volta in Italia in questa occasione, sembra quasi voler coniugare l’energia michelangiolesca con la grazia raffaellesca “dentro un impasto pittorico fatto di pennellate larghe e liquide, di corpi dalla consistenza morbida come cera” (così Anna Bisceglia in catalogo), dimostrando d’aver recepito “l’intreccio” che connota, per esempio, la Madonna della seggiola, ma palesando anche pulsioni manieriste (il riferimento proposto è Domenico Beccafumi) per l’irrequietezza dei personaggi, in particolare del Bambino che, con la sua posa difficile e contorta, pare non curarsi in alcun modo della madre. Roma diventò la città preferita dai pittori spagnoli di passaggio in Italia almeno a partire dalla metà del Cinquecento, ed è tuttavia interessante notare come Raffaello e Michelangelo non fossero gl’unici artisti cui i pittori in arrivo dalla penisola iberica guardavano. La rassegna fiorentina ben evidenzia i debiti degli artisti spagnoli nei confronti di Sebatiano del Piombo (Venezia, 1485 circa – Roma, 1547): la sua devozione idealizzata, che trova uno dei vertici nella celeberrima Pietà di Viterbo (in mostra è presente uno studio per il Cristo deposto, minimamente scalfito dalle sofferenze della croce), ispirò più d’un giovane artista iberico, come attesta il Cristo portacroce della bottega di Luis de Morales, derivante da un prototipo del maestro, memore delle sofferte scene del pittore veneziano, ma votate più a impressionare il riguardante che a farlo meditare, come lasciano intendere certi particolari che Sebastiano del Piombo non avrebbe mai immaginato per un suo Cristo (valga l’esempio della corda attorno al collo, d’una gravosità totalmente sconosciuta all’arte del grande veneto).

 

Alonso Berruguete, Madonna col Bambino
Alonso Berruguete (?), Madonna col Bambino, da Donatello (1508-1510 circa; pietra rossa su carta, 364 x 268 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

 

Gaspar Becerra, Disma
Gaspar Becerra, Disma, da Michelangelo (prima del 1533; pietra nera su carta, 340 x 210 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

 

Alonso Berruguete (attribuito), Il profeta Daniele
Alonso Berruguete (attribuito), Il profeta Daniele, da Michelangelo (1512-1517 circa; pietra rossa su carta, 399 x 281 mm; Valencia, Museo de Bellas Artes)

 

Pedro Machuca, Sacra Famiglia
Pedro Machuca, Sacra Famiglia (1520 circa; olio su tavola, diametro 72 cm; Praga, Národní Galerie)

 

Sebastiano del Piombo, Cristo deposto
Sebastiano del Piombo o cerchia, Cristo deposto (1512 circa; pietra rossa su carta, 120 x 290 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

 

Bottega di Luis de Morales, Cristo portacroce
Bottega di Luis de Morales, Cristo portacroce (1550-1560 circa; olio su tavola, 59,5 x 56 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)

La seconda parte di Spagna e Italia in dialogo, corrispondente alle sezioni che vanno dalla quarta alla sesta, affronta invece il percorso inverso, quello degli artisti che dall’Italia (e spesso anche da altre parti d’Europa) viaggiarono alla volta della Spagna. La quarta sezione, in particolare, si focalizza sulla Spagna come centro in grado d’attrarre pittori dall’estero grazie soprattutto all’azione di Filippo II che, come ricordato in apertura, dopo aver spostato la capitale da Toledo a Madrid, volle formare attorno a sé una corte culturalmente e artisticamente avanzata. Non solo: l’ascesa al trono di Filippo II, che succedette al padre Carlo V d’Asburgo nel 1556 a seguito dell’abdicazione di quest’ultimo, comportò l’inizio d’una serie di committenze che richiamarono in Spagna diversi artisti attratti dalla possibilità di dare una svolta alla loro carriera. Singolare è l’esempio d’un pittore come El Greco (vero nome Domínikos Theotokópoulos, Iraklion, 1541 – Toledo, 1614), artista dalle mai dimenticate origini elleniche, “che parve assimilare l’essenza stessa dei luoghi dove aveva trascorso la sua vita e maturato le sue conoscenze, esprimendola in un linguaggio artistico non precisamente localizzabile in un determinato paese” (Marzia Faietti). In mostra è presente la Guarigione del cieco nato di committenza farnesiana (quindi precedente il trasferimento in Spagna), che dimostra come El Greco avesse fatto sua la cultura figurativa veneziana (segnatamente il dinamismo, i baluginii e le aperture spaziali del Tintoretto), unendovi, a seguito d’un soggiorno a Roma, il plasticismo michelangiolesco: sono queste le esperienze che portò con sé in Spagna. Non ci sono altre opere di Theotokópoulos in mostra, ma occorre rimarcare come la produzione grafica spagnola di El Greco sia alquanto scarna e in condizioni non buone, e che l’aggiunta d’ulteriori dipinti per una presentazione più esauriente del suo percorso artistico presumibilmente esulava dagli obiettivi della mostra. Tuttavia, nel catalogo, Almudena Pérez de Tudela ricorda come El Greco, nel 1580, fosse stato incaricato di realizzare un’opera per uno degli altari dell’Escorial: il risultato finale però non piacque a Filippo II, con la conseguenza che l’artista cretese non fu più in grado di procurarsi incarichi nell’ambito della prestigiosa impresa che il sovrano aveva da qualche anno avviato.

Fu proprio la costruzione (e la successiva decorazione) del monastero dell’Escorial a catalizzare energie da tutta Europa e a convogliare a Madrid grandi ingegni. A seguito della prima ondata d’artisti italiani che rimpinguarono la corte di Filippo II fin dal momento in cui il giovane monarca salì sul trono spagnolo (tra questi Pompeo Leoni, Romolo Cincinnato, Giampaolo Poggini), se ne registrò una seconda, ben più consistente, coinvolta nell’impresa partita nel 1563. È necessario sottolineare che, più che sulle vicende che portarono alla realizzazione dell’imponente edificio destinato a diventare, oltre che un monastero, anche la residenza di Filippo II e luogo di sepoltura dei regnanti spagnoli, la mostra si concentra sul ruolo del disegno e della stampa nell’ambito dell’avventura dell’Escorial. Da un lato, il disegno rappresentò, per Filippo II, un modo per controllare l’avanzamento dei lavori. Pare infatti che il re avesse notevoli competenze in fatto d’architettura, e i progetti dovevano ottenere il suo personale benestare per essere approvati: in tal senso, il bozzetto preparatorio di Gregorio Pagani (Firenze, 1556 – 1605) per le scenografie dell’apparato funebre del sovrano, raffigurante Filippo II che approva il modello dell’Escorial, offre un interessante esempio. Dall’altro lato, il disegno fu un efficace mezzo per favorire la circolazione d’idee. La stampa, invece, fu utile a diffondere la fama dell’impresa, obiettivo da raggiungere programmaticamente con incisioni come quella di Pedro Perret (Anversa, 1549? – Madrid, 1625) che mostra la prospettiva generale di tutto il complesso di San Lorenzo de El Escorial, su disegno di Juan de Herrera.

Gli artisti italiani parteciparono soprattutto alle decorazioni. Il nome più celebre è quello del grande Luca Cambiaso (Moneglia, 1527 – El Escorial, 1585), chiamato in Spagna nel 1583 e rimastovi due anni, fino alla scomparsa: fu lui il primo italiano convocato all’Escorial. Imperdibili i suoi disegni stereometrici, a cominciare da quello per la Gloria dei beati (in mostra è tuttavia esposta una copia), il grande affresco destinato alla volta del coro della chiesa dell’Escorial, che la rassegna fiorentina presenta nella sua prima versione, quella che stando a Raffaele Soprani fu rifiutata da Filippo II perché la composizione era contraria alla logica secondo la quale “non stavano i santi del cielo in un istesso sito […] ma che premiati, secondo i meriti loro, si trovavano ripartiti in varie gerarchie, tra le quali alcune ve n’erano superiori, e più nobili, ed inferiori molt’altre”: questa motivazione, “più pia che pittoresca”, secondo Soprani ebbe l’effetto di distruggere quello che, a sua detta, era il più ingegnoso disegno mai uscito dalla penna di Luca Cambiaso. Lontano dalla riduzione in forme geometriche di Cambiaso fu invece il suo coetaneo Pellegrino Tibaldi (Puria di Valsolda, 1527 – Milano, 1596), che anche nei suoi disegni non mancò d’ammantare le sue figure di quel senso della monumentalità che gli derivava dal lungo contatto con le opere di Michelangelo: inoltre, l’abitudine a strutturare le composizioni entro architetture di chiara impronta classica (per tutti questi elementi si osservi la Strage degli Innocenti) era particolarmente consentanea al gusto della corte di Filippo II. Le sue prove riscossero un notevole successo, tanto che, dopo la scomparsa di Luca Cambiaso, fu lui il pittore che s’incaricò di realizzare gran parte delle decorazioni del complesso.

El Greco, Guarigione del cieco nato
El Greco, Guarigione del cieco nato (1570-1576 circa; olio su tela, 50 x 61 cm; Parma, Galleria Nazionale)

 

Gregorio Pagani, Filippo II approva il progetto dell'Escorial
Gregorio Pagani, Filippo II approva il progetto dell’Escorial (1589; penna e inchiostro, pietra nera, quadrettatura in pietra nera ripassata a pietra e inchiostro, riquadrato a pietra nera, carta, macchie di inchiostro blu, 260 x 366 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

 

Pedro Perret, El Escorial
Pedro Perret, El Escorial, séptimo diseño, perspectiva general de todo el edificio su disegno di Juan de Herrera (1587; bulino, 562 x 857 mm; Madrid, Biblioteca Nacional de España)

 

Luca Cambiaso, Gloria dei beati
Luca Cambiaso (copia da), Gloria dei beati, dettaglio (1584-1585, penna e inchiostro, pennello e inchiostro diliuito, tracce di pietra nera, carta, 495 x 412 mm; Palermo, Galleria Regionale di Palazzo Abatellis)

 

Luca Cambiaso, Predica del Battista
Luca Cambiaso, Predica del Battista (1583-1584; pietra nera, penna e inchiostro, pennello e inchiostro diluito, carta, 346 x 199 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

 

Pellegrino Tibaldi, Strage degli innocenti
Pellegrino Tibaldi, Strage degli innocenti (1587 circa; pietra nera, penna e inchiostro, pennello e inchiostro diluito, quadrettatura a pietra nera, carta, 402 x 237 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

Quali furono, infine, le conseguenze di tutti gli scambi visti sinora? La risposta spetta alle ultime due sezioni della mostra. Nella settima, si passano in rassegna alcuni artisti che, sulla scorta dei risultati prodotti nel cantiere dell’Escorial, cominciarono ad aggiornare gli ambienti artistici della Spagna: il disegno di Luis de Velasco (Toledo?, 1530 circa – Toledo, 1606) con Fernando de Antequera davanti alla Virgen de Gracia dimostra come l’artista abbia ben assimilato le “pratiche utilizzate dai pittori allora attivi nell’Escorial”, in particolare per la concezione della scena “secondo uno spazio continuo che non tiene conto della divisione finale del trittico, pur se l’ordinamento delle masse ne mette chiaramente in evidenza la struttura ripartita” (Roberto Alonso Moral). L’opera infatti è il disegno preparatorio per il Trittico della Vergine delle Grazie della Cattedrale di Toledo, dove nella scena centrale sant’Antonio presenta alla Vergine l’infante Ferdinando d’Antequera, poi diventato re Ferdinando I d’Aragona nel 1412. Lo stesso dicasi per Blas de Prado (Camarena, 1545-1546 circa – Madrid, 1599), che col suo tratto sciolto e rapido, come quello della Madonna col Bambino e santi, è vicino ai disegni di Federico Zuccari (Sant’Angelo in Vado, 1539 – Ancona, 1609): l’artista marchigiano si recò all’Escorial nel 1585 e soggiornò anche per un breve periodo a Toledo tra il 1586 e il 1587, ma s’ipotizza anche un viaggio di Blas de Prado a Roma (e se veramente si verificò, i due potrebbero essersi incontrati in tale occasione).

L’eredità di Federico Zuccari fu raccolta anche da un pittore italiano naturalizzato spagnolo, Vicente Carducho (nato Vincenzo Carducci, Firenze, 1576 circa – Madrid, 1638), giunto in Spagna da bambino, assieme a suo fratello Bartolomeo (anch’egli poi iberizzato in Bartolomé Carducho), che aveva seguito proprio Zuccari quand’era stato chiamato all’Escorial. La rassegna si conclude presentando al visitatore le vicende della famiglia Carducho e quelle di un’altra famiglia d’italiani emigrati in Spagna, i Cascese (o Cajés), ovvero Patricio Cajés (Arezzo, 1540 circa – Madrid, 1612) e suo figlio Eugenio Cajés (Madrid, 1574 – 1634). Patricio e Bartolomé, pittori di formazione zuccaresca, trasmisero la loro eredità sostanzialmente tosco-romana a Vicente ed Eugenio che seppero modificarla, attualizzarla e utilizzarla per imprimere un notevole sviluppo alla scuola madrilena. Di Vicente è rimasta una mole consistente di disegni: particolarmente interessante è un foglio con Studî di angeli, efficace nel suggerire le finalità del disegno secondo l’artista italo-spagnolo, che lo concepiva come un mezzo per creare vasti repertorî da riutilizzare poi in composizioni successive e per fornire modelli agli allievi della sua bottega, che erano usi copiare e riprodurre i suoi disegni onde progredire nella padronanza della tecnica artistica. Meno “pratico” l’unico esempio grafico di Eugenio Cajés presente in mostra, una Visitazione che, al contrario di quanto osserviamo nei fogli di Carducho, cerca l’effetto pittorico: chiara dimostrazione di come ormai, alla fine del Cinquecento, il disegno fosse divenuto anche in Spagna uno strumento creativo di cui venivano esplorate tutte le potenzialità, e di come, per tal ragione, i fogli venissero accuratamente conservati.

Luis de Velasco, Fernando de Antequera davanti alla Virgen de Gracia
Luis de Velasco, Fernando de Antequera davanti alla Virgen de Gracia (1583-1584 circa; penna e inchiostro, pennello e inchiostro diluito, pietra nera, carta, 176 x 345 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

 

Blas de Prado, Madonna col Bambino
Blas de Prado, Madonna col Bambino (1593-1599 circa; penna e inchiostro, pietra nera, carta, 100 x 80 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

 

Vicente Carducho, Studî di angeli
Vicente Carducho, Studî di angeli (1600-1606 circa; penna e inchiostro, carta, 186 x 149 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

La sezione sui Cajés e sui Carducho si configura come una piccola mostra nella mostra che giunge a conclusione d’un percorso affascinante, ma forse non per tutti, un po’ perché l’esposizione degli Uffizi affronta (con merito e qualità) un campo, quello delle relazioni tra Italia e Spagna nel Rinascimento, che s’è cominciato di recente ad approfondire (tappa fondamentale è stata la mostra Norma e capriccio, tenutasi nel 2013 proprio agli Uffizi) e che pertanto è ancora lontano dalla sensibilità del grande pubblico, e un po’ perché è una rassegna alla quale ci s’avvicina meglio se si parte con una qualche cognizione, anche basilare, sull’arte del tempo. Non si tratta, in altri termini, d’una mostra che concentra il proprio focus sulla divulgazione (e lo si evince, per esempio, dall’assenza di didascalie per descrivere le singole opere, o dall’idea di non utilizzare tanti pannelli quante sono le sezioni, ma di raggruppare le informazioni in singoli pannelli che servono più porzioni della rassegna), per quanto i video d’introduzione e di conclusione forniscano un valido supporto al visitatore: in quello che il pubblico trova a inizio percorso, le vedute del Mediterraneo restituiscono con immediatezza l’idea dello scambio e del viaggio facendo immergere i visitatori nel pieno dei temi affrontati da Spagna e Italia in dialogo, mentre il filmato finale mostra alcune delle opere sorte dai disegni preparatorî esposti.

Spagna e Italia in dialogo si focalizza sul suo aspetto di mostra di ricerca: una ricerca che, negl’intenti dei curatori, investe anche alcuni importanti aspetti metodologici come, citando ancora la curatrice Marzia Faietti, “l’opportunità di concepire cataloghi aperti” che mirino a superare ordinamenti troppo rigidamente impostati su schemi regionalistici o sui concetti di scuola nazionale (“conseguenze di determinati momenti storici e non criteri dotati di validità universale”), e ancora l’apertura del museo a una “circolazione globale della cultura” in linea coerente “con gli scambi ininterrotti fra paesi europei ed extra-europei favoriti dalle vicissituini storiche, economiche esociali”, la costruzione d’una prospettiva più ampia attorno a un autore o a un contesto artistico. In altre parole, la messa a punto d’una nuova geografia artistica: questo sembra suggerire tra le righe una rassegna che dunque non solo raggiunge, con efficacia e con la qualità garantita da un solido impianto scientifico, l’obiettivo di mettere a punto un’approfondita indagine sui fogli spagnoli conservati agli Uffizi, di contestualizzare la pratica del disegno nella Spagna del Cinquecento (e in tal senso il catalogo diventa uno strumento prezioso: da notare come manchino le descrizioni nelle schede delle opere, anche se per molti disegni esistono dettagliate descrizioni sul sito del progetto Euploos) e di delineare gli sviluppi delle arti nella stessa area e i dialoghi venutisi a creare in quegli anni, ma insiste nell’indicare una precisa strada per la ricerca storico-artistica. E sotto questo aspetto si può sicuramente dire che Spagna e Italia in dialogo sia animata da una visione moderna e lungimirante. Un’ulteriore nota di merito, infine, per l’allestimento, che ha consentito all’Aula Magliabechiana di liberarsi per la prima volta da pannelli divisorî e pareti provvisorie che l’avevano occupata nelle mostre precedenti, offrendo dunque al pubblico uno spazio aperto ch’è anche più congruo col nome stesso della sede espositiva.

ortare in vita, continuare, rimodellare, scimmiottare, emulare, imitare, parodiare, estrarre da, distorcere, occuparsi di, resistere, semplificare, ricostituire, elaborare, sviluppare, affrontare, padroneggiare, sovvertire, perpetuare, ridurre, promuovere, rispondere a, trasformare, contrastare… e chi più ne ha, più ne metta. E molte di queste relazioni non possono esser pensate nei termini di X che ha fatto qualcosa su Y, ma nei termini contrarî. Ragionare nei termini bruschi delle ’influenze’, significa impoverire queste differenze”.

Leggi tutto “Una bella mostra per palati fini agli Uffizi sulla dialettica tra Italia e Spagna nei primi anni della Maniera”

Amministrazioni e cultura: 5 Stelle e Lega

Come se la passa la cultura nelle amministrazioni di 5 Stelle e Lega Nord? Diamo un’occhiata

Le elezioni del 4 marzo ci hanno consegnato un risultato più che mai incerto e, a distanza d’una settimana dalla chiusura delle urne, ancora si fatica a comprendere quali potranno essere i futuri equilibrî in Parlamento: tuttavia, tra gli scenarî ancora ritenuti più probabili, figura quello di un’intesa tra Movimento 5 Stelle e Lega Nord.

Roma, la Fontana di Trevi. Ph. Credit Finestre sull'Arte

 

Probabile, ma difficile: intanto, perché i rispettivi leader hanno già escluso la possibilità di un’allenza. E poi, perché i programmi di Movimento e Lega divergono su molti punti chiave, e anche se dovesse andare in porto l’ipotesi d’un governo a trazione pentastellata e leghista, l’idea che un’operazione simile possa durare a lungo parrebbe aver a che fare più con la fantapolitica che con la realtà. Molto più probabile l’ipotesi che il futuro governo includa elementi dell’uno o dell’altro partito. Tuttavia, poiché si tratta d’una situazione inedita (non era mai accaduto che, a livello nazionale, i grillini oltrepassassero il 30% delle preferenze, né mai prima d’ora la Lega Nord era risultata il primo partito all’interno della coalizione di centro-destra), val la pena condurre un approfondimento, limitato al nostro ambito, per vedere come se la passa la cultura nelle amministrazioni di Movimento 5 Stelle e Lega Nord. Certo: il settore della cultura è quello dove i programmi di Lega e 5 Stelle prendono vie diverse, su molti punti opposte. Ed è anche vero che le logiche alla base dell’amministrazione d’un comune o d’una regione sono radicalmente differenti da quelle che entrano in gioco a livello nazionale. Ma analizzare ciò che pentastellati e leghisti hanno fatto per la cultura all’interno delle loro amministrazioni può essere utile per trarre elementi di valutazione.

Il Movimento 5 Stelle amministra quattro città capoluogo di provincia, di cui tre sopra i centomila abitanti (nell’articolo si terrà conto solo di queste): Roma, Torino, Livorno e Ragusa. A Roma, l’assessore Luca Bergamo, in passato vicino ai ranghi ulivisti ma considerato indipendente, è indicato da più parti come uno dei migliori assessori della giunta Raggi e ha avviato una politica volta alla democratizzazione della cultura, animata dall’idea che la cultura non equivalga al profitto e senza far mistero del fatto che le politiche culturali della città dovrebbero riguardare i cittadini prim’ancora che i turisti: vanno in tal senso alcune misure come l’introduzione d’una card per i residenti che, al solo costo di 5 euro, permette di visitare tutti i musei civici romani, il tentativo di “rivisitazione” di Zètema (la partecipata di Roma Capitale nel settore della cultura) come società di servizi ancillare al Comune e non come centro d’ideazione e di progettazione, l’interesse per gl’istituti alternativi (come il MAAM o il Teatro Valle), il progetto (ancora sulla carta) per l’accesso gratuito per tutti ai Fori Imperiali, la riorganizzazione degli spazî espositivi della città con la nascita d’un Polo del Contemporaneo capace di radunare il Macro nelle sue due sedi, il Palazzo delle Esposizioni e la Pelanda, il riassetto del sistema teatrale della città, con un’unica associazione a occuparsi di tutti i teatri comunali. I critici puntano il dito contro la propensione dell’assessorato alla crescita culturale (questo ufficialmente il nome) a voler puntare su mostre ed eventi di nicchia e a non investire in eventi di maggior richiamo turistico, contro un’attenzione ritenuta eccessiva verso gli spazî culturali occupati, e contro alcuni episodî come la chiusura del Teatro dell’Orologio, l’aver affidato a Giorgio De Finis la direzione de facto del Macro senza il ricorso a un bando (e tuttavia, al contrario, diverse star del cinema hanno firmato una petizione contro Bergamo per aver messo a bando piazza San Cosimato, già occupata dall’associazione Piccolo Cinema America, che l’aveva trasformata in un cinema all’aperto).

Ben peggiore, al limite del disastroso, sembra essere invece la situazione a Torino, dove ha fatto clamore la separazione tra l’Associazione Italiana degli Editori e il Salone del Libro, che ha comportato la nascita della fiera Tempo di Libri, con sede a Milano, e dopo che il Salone tuttavia già soffriva di diversi problemi, sia di natura finanziaria, sia in termini di numero di visitatori (la manifestazione ha avuto un’emorragia di visitatori a partire dal 2015, anche se sono nate numerose querelle intorno al metodo di calcolo dei dati ufficiali, dal momento che i dati precedenti il 2016 sommano biglietti venduti e altri titoli d’ingresso, come pass e abbonamenti. Il 2017 ha tuttavia registrato un aumento rispetto al 2016). Non solo: Torino ha infatti perso il Jazz Fringe Festival (che si è trasferito a Firenze), il Classical Music Festival (cancellato), la grande mostra su Manet (spostata a Milano, a Palazzo Reale, causa mancato accordo tra organizzatori e Comune) e diversi altri eventi. E ancora: l’assenza d’un programma di lungo termine sui musei e la latitanza di mostre di richiamo nazionale (l’unica nell’ultimo anno è stata forse quella su Miró a Palazzo Chiablese) hanno comportato, in controtendenza rispetto al resto d’Italia, cali diffusi che nel 2017 hanno provocato una diminuzione di circa 200.000 visitatori nei musei civici rispetto al 2016, con il record negativo della GAM che ha fatto segnare un crollo di centomila visitatori, del Museo Civico di Palazzo Madama che è riuscito a perdere circa novantamila visitatori in un anno, e del Museo d’Arte Orientale, che ha visto un calo di ventimila visitatori. E non è finita: s’è rischiata la chiusura della Biblioteca di Storia dell’Arte della GAM (al momento, per fortuna, scongiurata grazie a uno stanziamento della regione), e i vistosi tagli alla cultura decisi dalla Giunta Appendino (oltre 5 milioni di euro in meno solo per la Fondazione Torino Musei, il tutto per riequilibrare gli assetti finanziarî del bilancio comunale) hanno comportato 28 licenziamenti alla Fondazione Torino Musei (poi riassunti, metà dei quali grazie al contributo della regione per la biblioteca). Il bilancio è, insomma, decisamente negativo: mancano strategia e progettualità, manca una visione d’ampio respiro, manca la volontà d’investire nel settore (anzi, finora s’è tagliato), manca una figura forte all’assessorato alla cultura.

A Livorno, la giunta Nogarin ha puntato sui musei col suo primo assessore alla cultura, Serafino Fasulo, poi espulso a causa di problemi interni al Movimento 5 Stelle. L’azione è quindi proseguita col nuovo assessore, Francesco Belais che, al contrario di quanto avvenuto a Torino, ha fatto aumentare la voce relativa alla cultura nel bilancio comunale (si tratta, comunque, di cifre minuscole, sotto i duecentomila euro), ha riorganizzato il sistema bibliotecario della città promuovendo anche un riordino della Biblioteca Labronica, la principale del comune toscano, e inaugurandone una nuova, la Biblioteca Comunale del Polo Culturale Bottini dell’Olio (benché i lavori fossero cominciati già sotto la precedente amministrazione), e ha promosso l’istituzione d’un “Museo della Città”, finanziato con fondi regionali e destinato ad accogliere opere antiche e moderne entro un percorso che ripercorre la storia di Livorno, che aprirà proprio nel complesso dei Bottini dell’Olio (tuttavia l’apertura, prevista per fine 2017, è rimandata, benché i lavori siano in dirittura d’arrivo). Ai pentastellati di Livorno si rimprovera, tuttavia, la propensione a puntare su situazioni di scarso richiamo da fuori regione, e la scarsa inclinazione a portare turisti in città.

Più compatto appare invece il fronte leghista: in pressoché tutte le amministrazioni dove è presente un assessore alla cultura in forza al Carroccio (da annotare, tuttavia, il caso di Novara, guidata da un sindaco leghista, e dove però in giunta non figura un assessorato espressamente dedicato alle politiche culturali), la cultura è intesa sostanzialmente in termini di asset turistico e di insieme di tradizioni tipiche del territorio. Sintomatico il programma di Massimo Polledri, assessore alla cultura di Piacenza e leghista della prima ora (vanta una militanza nella Lega dal 1993), che, intervistato poco dopo la sua nomina dal quotidiano locale Libertà, dichiarava d’essere intenzionato a puntare sul marketing territoriale, sul “brand Piacenza” per rilanciare l’appeal turistico della città, sulla figura di Vittorio Sgarbi come consulente per gli eventi artistici. Tuttavia, finora gli unici risultati raggiunti in pochi mesi sono stati i tagli che hanno colpito soprattutto teatri e associazioni culturali, il drastico ridimensionamento di Piacenza Jazz Fest, e la cancellazione del Festival del Diritto, una rassegna che negli anni ha coinvolto numerosissime personalità della cultura italiana (sarebbe ozioso elencarle) e che nel 2018 avrebbe festeggiato i suoi dieci anni di vita.

La Lega, inoltre, amministra due grandi regioni dell’Italia settentrionale, la Lombardia e il Veneto. In Lombardia, l’assessore leghista Cristina Cappellini, posta alla guida della “Direzione Generale Culture, Identità e Autonomie” (e già il nome dell’istituto dice molto circa le visioni della Lega), s’è distinta per aver introdotto un interessante abbonamento regionale ai musei regionali e per aver investito circa 160 milioni di euro in cultura durante i cinque anni del suo mandato (com’è noto, lo scorso 4 marzo si sono tenute le elezioni per il rinnovo della giunta regionale lombarda, che hanno visto una nuova vittoria del centro-destra a guida leghista). I finanziamenti sono andati a progetti di recupero e restauro di beni culturali, a progetti di avvicinamento dei cittadini al patrimonio, a progetti di valorizzazione. Ma nel 2016 è stata anche approvata una legge regionale sulla cultura incapace di intervenire con forza su molti problemi del comparto (a cominciare dal lavoro e dalla conservazione), e tacciata dall’opposizione di eccessivo localismo (specialmente nella velleità di promuovere “la salvaguardia e la valorizzazione della lingua lombarda”) e di conservatorismo reazionario nel suo intendere la cultura come recupero dell’identità regionale. Cristina Cappellini s’è poi fatta riconoscere a livello nazionale per iniziative a dir poco discutibili e anacronistiche come lo Sportello Famiglia, ribattezzato dai detrattori “centralino anti gender” perché presentato come un servizio utile anche a “contrastare l’ideologia gender” (poi fortunatamente chiuso) o l’ormai celebre spot per il Family Day direttamente sulle finestre del Pirellone, oggetto di innumerevoli sberleffi sui social. Infine, in Veneto, si registra la presenza d’un “assessore al territorio, cultura, sicurezza e sport”, Cristiano Corazzari, la cui azione si è caratterizzata per l’idea di puntare sulle imprese culturali (proprio a novembre sono stati stanziati quasi 12 milioni di euro per le imprese che operano nella cultura), per la promozione d’un portale web dedicato ai beni culturali del Veneto, per gli interventi nell’ambito della promozione turistica.

Una bella mostra per Elisabetta Sirani una pittrice da conoscere

Elisabetta Sirani, agli Uffizi disegni e dipinti dell’“eroina” che cambiò il ruolo della donna nella storia dell’arte

Recensione della mostra ‘Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani’, a Firenze, Galleria degli Uffizi, dal 6 marzo al 10 giugno 2018.

di Federico Giannini, Finestre sull’arte 8 marzo 2018

Sala della mostra Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani

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Confusione, approssimazione e ignoranza: i programmi dei partiti di fronte ai Beni culturali…

Come parlano di beni culturali i partiti in lizza alle elezioni del 4 marzo? Abbiamo analizzato i programmi

Federici Giannini, Finestre sull’arte, 2-3-2018

È verosimile che ricorderemo la campagna elettorale che (finalmente) s’avvia verso la conclusione come la più squallida dell’intera storia repubblicana. E non soltanto per i toni ai quali le parti sono state in grado d’arrivare, ma anche per la sconfortante assenza di contenuti.

I principali partiti in lizza alle elezioni del 4 marzo 2018

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Sgarbi colpisce ancora …

Ricostruire il tempio G di Selinunte? Idea vecchia e sbagliata: lo dicevano già Brandi e Bianchi Bandinelli

in Finestre sull’Arte

Sgarbi lancia di nuovo la proposta di ricostruire il tempio G di Selinunte: un’idea vecchia e sbagliata. Lo dicevamo già Brandi e Bianchi Bandinelli.

Non è nuova, né tanto meno originale, l’idea di ricostruire il tempio G di Selinunte, rilanciata ieri da Vittorio Sgarbi, che da novembre è il nuovo assessore alla cultura della Regione Sicilia e che per tutta la campagna elettorale ha sbandierato l’ipotesi di ricostruzione come suo cavallo di battaglia. Nelle scorse ore, lo storico dell’arte ferrarese ha diffuso le stime sui costi per rialzare le colonne del tempio, abbattuto da un sisma in epoca altomedievale, quando Selinunte era già disabitata e in stato di abbandono da secoli. E da quell’evento, del tempio G non è rimasto altro che un ammasso di rovine su cui svetta un’unica colonna, ribattezzata “il fuso della vecchia” dagli abitanti della zona.

Jean Pierre Houël, Rovine del tempio grande di Selinunte

Jean Pierre Houël, Rovine del tempio grande di Selinunte (1782; inchiostro, pietra nera e gouache su carta, 35,1 x 54,5 cm; Parigi, Louvre, Cabinet des Dessins)

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