Solo lo scarto salva la bellezza
di Tomaso Montanari, “Il Fatto Quotidiano”, 21 luglio 2020
Lo storico dell’arte che legge il Manifesto per riabitare l’Italia prova insieme “grandissimo piacere … e grandissimo dolore”, per usare le celebri parole della lettera di Raffaello a Leone X (1519) sulla necessità di una tutela pubblica delle antichità.
Il dolore è dovuto alla consapevolezza che la storia dell’arte stessa si è messa al servizio di una pessima politica culturale sterilizzando le diversità culturali del Paese attraverso la sua concentrazione in pochi centri dunque afflitti da manifestazioni blockbuster (grandi mostre, turismo intensivo, espulsione dei residenti, sparizione dello spazio pubblico). Il piacere, invece, è dovuto al fatto che lo sguardo proposto dal Manifesto coincide con quello più autentico della storia dell’arte come disciplina scientifica.
Dal vocabolario della storia dell’arte (e della storia, più in generale) viene una parola-chiave, che vorrei idealmente aggiungere al Manifesto. Quella parola è: scarto. La sua polisemia è, per i linguisti, casuale. Ma, ai miei occhi, felicissima. Nella sua forma si trovano a confluire due storie etimologiche diverse. Lo scarto è ciò che si scarta, cioè che si butta via. La seconda scelta, che si lascia ai margini (e questo significato viene da scartare, nel gioco delle carte). Ma lo scarto è anche il movimento improvviso e imprevisto che riapre i giochi, e cambia paradigma (e questo significato viene invece dal latino exquartare , tramite il francese écarter: separare, dividere e dunque imboccare strade diverse). Dunque, la periferia (meglio: le aree interne, l’Italia dei vuoti, le Italie fragili, i margini) come scarto: nel duplice senso di ciò che è stato scartato e di ciò da cui potrebbe venire lo scarto, la mossa del cavallo che cambia il gioco. “Periferia come scarto” è il titolo di un paragrafo del classico saggio di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg su Centro e periferia (nel primo volume della Storia dell’arte italiana Einaudi, 1979). Ecco, nel manifesto ho ritrovato quello sguardo, questo vocabolario. L’idea forte che la soluzione di molti dei problemi che i centri non sanno risolvere possa venire da quell’“Italia municipale, non regionale, che è esistita per secoli, indomita, troppo vigorosa e aspra per essere selvaticamente paga di sé, per potersi chiudere nel suo guscio, ma troppo anche per accettare una docile subordinazione politica o letteraria alla regione, o alla nazione” (Carlo Dionisotti).
Un’Italia disposta a macchie di leopardo, e non riducibile nelle categorie del Sud o delle campagne, che invece insiste su tutto il territorio della Repubblica, penetrando nelle grandi periferie urbane. Luogo del pericolo, ma anche luogo di elaborazione di ciò che salva.
Dunque, condivido innanzitutto il discorso sullo sguardo: lo ‘sguardo da vicino’ evocato dal punto 8 del Manifesto. La storia dell’arte italiana nasce (con Luigi Lanzi, 1795) in lieve ritardo rispetto a quella della letteratura italiana (con Girolamo Tiraboschi, 1772) perché (lo ricordava sempre Dionisotti) gli storici dell’arte non possono lavorare in biblioteca, devono percorrere il territorio, con tutti i suoi accidenti, per conoscere le opere nei loro contesti. Lo sguardo da vicino è uno sguardo che si muove.
Mi è capitato spesso di ripetere che, mentre la storia dell’arte si adagiava (salvo poche e lodevoli eccezioni) a organizzare grandi mostre nei grandi centri, la logica dello sguardo mobile portava a vere rivoluzioni in altri ambiti, in verità assai prossimi. Come quella avviata da Luigi Veronelli, che parlava di “camminare le osterie”, “camminare le cantine”: e da lì “camminare la terra”, “camminare le campagne”.
Invertire lo sguardo (si veda il punto 9 del Manifesto) significa anche comprendere che nell’Italia dei margini e dei vuoti è possibile cogliere un diverso rapporto tra il presente e il passato. Mentre nel modello culturale dei grandi centri la rimozione della storia ci inchioda alle esigenze effimere della dittatura del presente, in quello dell’‘altra Italia’ la leggibilità della stratificazione storica genera consapevolezza dell’alterità del passato e dunque della possibilità di costruire un futuro diverso dal presente, ricostruendo così i nessi essenziali tra democrazia (cioè costruzione collettiva di un’alternativa al presente) e spazio pubblico.
Invertire lo sguardo significa guardare all’Appennino per capire le città di pianura: non pensare che in queste ultime si trovi la ‘cura’ per ‘salvare’ l’Appennino.
Così come cercare in un altro spazio, significa avere un’altra consapevolezza del tempo. Vedere, cioè, la nostra vita quotidiana più faticosa, anonima, grigia si snoda in uno spazio che è reso straordinario non solo dalla bellezza che vediamo, ma anche da quella che non vediamo, e che ci passa accanto come un angelo nascosto. È l’intreccio delle vite, delle parole, delle storie che aleggiano sul territorio ci troviamo ad attraversare: è quella che la teologia cristiana chiama “la comunione dei vivi e dei morti”. Solo la consapevolezza di questo intreccio rompe l’assedio del presente e permette di costruire il futuro: coltivare la nostra “naturale propensione per recuperare l’antico nel nuovo, per trovare nell’antico le vie di comprendere il nuovo” (sono parole di Jean Paul Sartre scritte per Carlo Levi). Questo, tra i molti, il dono di un’Italia ai margini, se solo fossimo capaci di posare su di essa uno sguardo diverso.
Le mappe che l’ultimo punto del Manifesto auspica e annuncia, mappe “sulle persone, sulle idee, sulle competenze e sulla forza aggregativa”, sono anche le mappe che la storia dell’arte, e più in generale una storia della cultura, elabora da secoli, e che gli ultimi trent’anni hanno imperiosamente ripiegato e dimenticato. Tornare ad aprirle, aggiornarle, riscriverle e discuterle collettivamente significa esattamente trovare nell’antico le vie di comprendere il nuovo: anzi, di costruirlo, insieme. Partendo dallo scarto: cioè da ciò che è stato scartato, e che invece può consentire quello scarto di cui abbiamo tutti disperatamente bisogno.