Li abbiamo visti negli anni scorsi!

Tre tesori rimasti segreti tutti da scoprire

di Tomaso Montanari in FQ 5-8-2019

I capolavori italiani nell’ombra: l’abbazia Sacra di San Michele in Val di Susa, il Guerriero di Capestrano nel museo di Chieti, la Cappella del tesoro di San Gennaro a Napoli 

Tempo d’estate. Tempo di liberazione: per i pochi che possono, almeno. E che hanno dunque il dovere di ritemprare non solo il corpo e la mente dalla stanchezza e dall’abbrutimento in ruoli bloccati di produzione e consumo: ma anche di ritemprare la loro umanità.Per questo abbiamo, gratuitamente, l’Italia. Percorrere il nostro Paese, fuori dalle rotte autostradali o da quelle dei voli. Perdersi in Italia: nel suo tessuto così familiare, e insieme così poco noto. Fino ad esserci largamente estraneo, se enumeriamo le città e i paesi in cui, no, non siamo mai stati. Può bastare l’improvviso giorno di pioggia che ci allontana dalla spiaggia: o la curiosità di errare per una valle non lontana. Ci verrà incontro quell’indivisibile fascio di paesaggio, arte, odori, sapori che ha incantato generazioni di viaggiatori, perfino i più ascetici.

“Nella mia memoria – scrive Simone Weil ad un amico nella primavera del 1937 – ho collezionato molte ‘fiaschetterie’ fiorentine (che bel nome!), perché mangio solo lì (pasta al sugo tra 70 centesimi e 1 lira) e ogni volta in una diversa. Una, vicinissima al Carmine (come sono belli gli affreschi del Masaccio!), piena di giovani operai e di pensionati, che si divertono a improvvisare canzoni, con versi e musica! Compiango molto gli infelici che hanno la sfortuna di aver soldi e mangiano nei ristoranti da 8 e 10 lire”.

Ecco, ogni sforzo in questa direzione sarà ripagato il cento per uno: perché camminare l’Italia significa viaggiare nel tempo, conoscere mondi perenti, sbirciare oltre la soglia del futuro. Perché, come ha capito Carlo Levi, “forse è proprio questo il primo dei caratteri che distinguono l’Italia: quello di essere il Paese dove si realizza, in modo più tipico e diffuso e permanente che altrove, la contemporaneità dei tempi. Tutto è avvenuto, tutto è nel presente. Ogni albero, ogni roccia, ogni fontana contiene dentro di sé gli dei più antichi. L’aria e la terra ne sono impastate e intrise. Con gli Dei, gli uomini e i loro fatti: sui selciati delle strade, sugli asfalti delle automobili, risuona l’eco di passi innumerevoli. Il macellaio del Ghetto di Roma è installato nella cornice di marmo dell’ingresso sacro a una qualche divinità pagana; il ristorante dove uso cenare ha i tavoli tra l’opus reticulatum e i rocchi di colonne del Teatro di Pompeo, all’incirca là dove Cesare cadde”.

Ecco dunque 3 consigli: uno al nord, uno al centro e uno al sud; per chi, leggendo queste parole, avesse sentito accendersi il desiderio di un viaggio.

Il bastione piemontese

Luogo di mille frontiere – tra l’Italia, la Francia, l’Europa, tra 2 idee di politica, tra l’umanità e il profitto, tra la lealtà e il tradimento – la Val Susa, incantata valle alpina, ha a difenderla uno dei monumenti più ispiranti del Medioevo: la Sacra di San Michele. L’abbazia corona il Monte Pirchiriano: anzi, ne sostituisce la cima naturale con la sua mole artificiale, come un razzo spaziale verso il paradiso. Un luogo strategico: a sorvegliare la strada che portava i pellegrini del Nord a Roma o in Terrasanta. E magico: si diceva che lì fosse apparso l’arcangelo Michele, il capo delle schiere celesti. Come nel Gargano (appunto a Monte Sant’Angelo), come in Normandia (a Mont Saint–Michel): come su quello strano monte artificiale che è il Mausoleo dell’imperatore Adriano nel cuore di Roma, che ebbe nuova vita come Castel Sant’Angelo. Costruire la Sacra lassù fu faticosissimo, e già nel 1061 la si guardava come un miracolo dell’umana operosità: quando quest’ultima agiva in armonia con la natura, non per sventrarne i monti per treni utili solo a chi ne costruisce la ferrovia. “Questo è un luogo di pace, lasciate da parte le discordie!”: così ammonisce, con quanta prescienza, un’iscrizioni della Porta dello Zodiaco, didascalia all’immagine di Caino che uccide Abele: primo frutto della discordia fratricida degli uomini. A questa porta monumentale si arriva tuttora dopo aver percorso l’aspra e buia salita della Scala dei Morti, intagliata dalla roccia e in parte scavata nel monte. Dopo il camminare a tentoni della vita, ecco infine la porta del cielo: così avranno pensato i pellegrini medioevali, per cui ogni gran chiesa ardente di luci e luccicante di ori e gemme era figura, e anticipo, di quella Gerusalemme celeste il cui miraggio allietava una vita bestiale. Ma – magia dell’arte – quel portale e quella chiesa non parlavano solo di un altrove lontano e trascendente: bensì anche degli uomini che avevano dato forma a quella bellezza. “Presti attenzione a quest’opera chiunque sia capace di misurarne il valore: guardate che fiori e che bestie feroci!”. Parola del loquace Maestro Niccolò, autore di gran parte delle sculture della Porta dello Zodiaco: oggi posterebbe ogni opera su Instagram, a giudicare dalla logorrea con cui espone i suoi mostri anche sul portale del Duomo di Ferrara, e nel suo capolavoro di scultura (e forse di architettura) la grande e nobile San Zeno di Verona. Scendiamo, dunque, lungo il gran corpo dell’Italia.

In lotta dal VI secolo

Lasciamoci alle spalle ciò che è più noto e amato: “le trepide città dove l’Appennino profuma più umano nelle cesellate siepi, tra i caldi arativi della Toscana, o dove più selvaggio le vecchie pievi assorbe nell’etrurio – s’allontanano sull’ala dei vergini, chiari suoni serali” (così Pasolini, nel 1951). E fermiamoci a Chieti, Abruzzo.

Qui, nel Museo archeologico nazionale (nazionale: a ricordarci che siamo nazione soprattutto qua, nel patrimonio e nel paesaggio: con legami che nessuna autonomia differenziata dei cementificatori, leghisti o piddini, può spezzare) c’è la figura monumentale più antica dell’arte italiana: meta del VI secolo prima di Cristo. Il Guerriero di Capestrano è indimenticabile, se lo si vede dal vivo: spalle e fianchi larghissimi, statura pazzesca (oltre due metri) contraddetta dallo spessore di sogliola (circa 30 centimetri), che ci ricorda che questa statua era in realtà una stele funeraria, piantata nella necropoli di Aufinum (appunto a Capestrano, provincia dell’Aquila). L’ascia, la spada, il pugnale: un’intera panoplia riveste il nostro guerriero, armato fino ai denti e protetto da una maschera per calarsi nel buio di una notte sconosciuta, la morte. Quell’improbabile sombrero, quelle borchie sul corpo nudo: è davvero estraniante la vista di questo eroe da bondage messicano. E tanto più doveva esserlo quando il colore ancora ricopriva la sua statua.

Ma chi era, in realtà, il nostro guerriero? Una lunga iscrizione in lingua picena, scritta da destra a sinistra (come l’ebraico, o i fogli di Leonardo), tramanda probabilmente il nome dello scultore o del committente (“Aninis”?), e almeno parte di quello del protagonista (“Pomp.”). Ma forse non è l’identità dell’eroe la questione più affascinante che la statua presenta alla mente dei suoi visitatori. Essa ci parla di un’Italia remotissima, eppure ancora presente per segni e oggetti (come dimenticare la testa di guerriero trovata a Numana, e oggi al Museo non meno Nazionale delle Marche, ad Ancona?): l’Italia dei Piceni, che conosceva bene i contemporanei, elegantissimi Kouroi attici (due ne sono stati trovati a Osimo, e oggi sono a Firenze), ma sceglieva orgogliosamente uno stile proprio, diverso ed eloquentissimo nel suo ostentato carattere, per così dire, anticlassico. Un’Italia centrale già allora in dialogo con il mediterraneo intero, dunque: ma gelosamente capace di costruire modelli estetici lontani dal mainstream, e ad esso anzi alternativi. Come doveva essere quell’Italia del VI secolo avanti Cristo, con il suo paesaggio che è ancora in gran parte il nostro, in una sovrapposizione continua che rende ogni nostro gesto come la mossa di un ballo a cui partecipano legioni di invisibili compagni? Un’architettura e una figura, una valle e una piccola città di provincia. Andiamo ora a sud, e chiudiamo con un palinsesto straordinario di tutte le arti.

Si spalanca il paradiso

Un fuoco d’artificio che brilla su Napoli: la Cappella del Tesoro di San Gennaro, cui si accede dalla navata destra del Duomo. Un monumento celeberrimo: ma quanti italiani centro–settentrionali l’hanno vista? Varcandone la soglia, si entra in un’altra realtà, perché sulla nostra testa si spalanca il paradiso, in un turbinio di nuvole e santi; ci circonda e ci pressa un popolo di statue d’argento e di bronzo; una serie senza fine di storie colorate si snoda sulle pareti. La storia di queste ultime è particolarmente complessa. La Deputazione voleva avere i migliori frescanti del momento, e nel 1630 scelse un geniale bolognese, Domenichino. Egli affrescò completamente le lunette e i pennacchi della Cupola: e queste scene affollatissime e concettose rappresentano il risultato più spintamente barocco della sua intera opera.

In alcune parti (come la lunetta dedicata al miracolo contemporaneo con cui San Gennaro avrebbe fermato l’eruzione del Vesuvio del 1631) Domenichino raggiunge un’altissima intensità lirica, pur in una forma distesamente narrativa. Replicando lo schema celebratissimo di Sant’Andrea della Valle a Roma, alla morte di Domenichino la Deputazione ottenne che ai pennacchi affrescati da quest’ultimo si sovrapponesse una cupola dipinta dal suo grande confratello e rivale carraccesco, Giovanni Lanfranco, già attivo per Napoli. Il risultato fu lo spettacolare Paradiso (1641–’43), una gran macchina rotante di nubi e figure: vero paradigma per le cupole dipinte del barocco napoletano.

I Deputati del Tesoro pensavano alla Cappella come ad un gigantesco reliquiario prezioso, ed ebbero la irrituale idea di far dipingere le sei pale per gli altari della cappella non su tele o tavole, ma su lastre di rame incorniciate da pietre dure: ottenendo dipinti eccezionalmente luminosi e levigati. Una delle pale fu lasciata al principe dei pittori napoletani, Jusepe de Ribera, che volle gareggiare con i maestri bolognesi della luce e trasformò il suo quadro in una festa di colori brillanti come smalti. Sono indimenticabili l’azzurro del cielo e l’oro degli abiti del santo, che squarciano l’aria della cappella come squilli di tromba. E poi c’è proprio lui, Gennaro: che esce senza una bruciatura – solo un po’ pallido, sudato, la mitria sulle ventitré – dalla fornace in cui l’avevano chiuso i soldati romani, certi di cuocerlo a puntino. Come quello di un pupazzo a molla, il suo salto spacca in due il quadro: sotto, più vicino a noi, ecco il terrore e lo stupore degli uomini (e di quel ragazzo vestito di rosso, che ci guarda negli occhi e spalanca la bocca, per terrore o per gioco); sopra, verso il cielo della cupola, va in scena la danza serena degli angeli. Alle immagini bidimensionali si accompagnano le statue: al miglior allievo di Bernini, Giuliano Finelli, fu chiesta la statua in bronzo di San Gennaro in cattedra, che riuscì una sorta di riscrittura sacra dell’Urbano VIII di Gian Lorenzo in San Pietro, oltre alle 12 statue dei compatroni della città, cui nel corso del Sei e del Settecento se ne aggiunsero altre, in bronzo e in argento. Insieme al paliotto d’argento di Gian Domenico Vinaccia (1692–’95), e a un ricco corredo di vasi sacri e suppellettili, le opere formano uno dei vertici dell’arte barocca europea: unitario e conservato come pochi altri. Cosa aspettate ad andarlo a vedere?

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