L’incapacità di leggere la storia e gli spazi vuoti e il partito traversale del cemento

Tomaso Montanari: Gli Arconi di Perugia stuprati

E sì che Raffaello a Perugia dovrebbe essere di casa. Ma nulla, non sarebbe potuto cadere più nel vuoto il suo appello, rivolto nel 1519 a papa Leone X, a mettere pace tra passato e presente, a costruire, sì, “grandi edifici”, ma “lasciando vivo il paragone degli antichi”.

Detto in altri termini (e da uno che si era trovato a partecipare alla traumatica demolizione e ricostruzione della Basilica di San Pietro), non è vero che la modernità debba crescere a spese della storia, mangiandola e distruggendola. Viene in mente questo altissimo, lacerante appello guardando lo strazio degli Arconi di Perugia: le maestose architetture trecentesche che sorreggono la Piazza del Sopramuro, dove sorge il Palazzo del Capitano del Popolo e oggi dedicata a Giacomo Matteotti. Quei grandi vani, carichi di storia e maestosamente vuoti, negli ultimi mesi sono stati riempiti di cemento, con grandi strutture che si proiettano verso l’esterno e che in questo momento vengono completati da vetrate postmoderne. Uno strazio storico ed estetico: oltre che un azzardo grave, in una terra sismica. Perché la storia insegna (vedi il caso tragico della vicinissima Basilica di Assisi) che il matrimonio tra cemento e architettura medioevale può essere fatale.

Il progetto è dell’attuale giunta comunale perugina guidata da Andrea Romizi (Forza Italia, Fratelli d’Italia e gli altri pezzi della destra), ma finanziato dalla Regione Umbria (Pd), in una sorta di perfetta illustrazione del trasversale partito del cemento. E per amara ironia della sorte, il fine è quello trasformare gli Arconi in una biblioteca multimediale pubblica. Già: in un Paese in cui le biblioteche chiudono, muoiono, sono senza soldi e senza personale il paradosso vuole che per costruirne una (ottima idea) si distrugga un luogo cruciale della storia di una delle nostre più belle e amabili città (idea pessima). “Le cose belle lo sono di meno, se sono fuori posto” (Jean de la Bruyère, Les caractères, 1688): precetto fondamentale, e tanto più vero se si pensa che quegli spazi chiusi e comunque limitati sono tutto il contrario di ciò che servirebbe ad una biblioteca.

La storia degli Arconi, cioè la storia di una paradossale cancellazione di un bene culturale in nome della cultura, è terribilmente istruttiva sotto vari punti di vista. Intanto rende evidente la nostra incapacità di leggere la città storica e accordare la nostra anima sul suono altissimo che esce da quelle mura. Il rapporto tra pieni e vuoti, quello tra paesaggio e architettura, le pause e la poesia dello spazio sono aspetti del tessuto urbano antico assai più difficili da definire e da comunicare delle emergenze architettoniche. Nessuno penserebbe (ancora) di trasformare la Fontana Maggiore di Perugia in un vivaio di trote, anche se non ci si fa nessuno scrupolo ad affogarla nella imbarazzante tendopoli di Eurochocolate. Ma il vuoto degli Arconi siamo incapaci di leggerlo, di apprezzarlo, di amarlo: come una musica che non riusciamo più a sentire.

In secondo luogo, la tormentata storia del progetto (con il legno originario che diventa cemento) svela l’impotenza degli organi di tutela: nulla ha potuto la Soprintendenza, piegata dalle norme patrimonicide dello Sblocca Italia renziano e dal continuo avvicendarsi dei pochi funzionari rimasti. La morale è che ormai dei beni culturali si può fare impunemente ciò che si vuole.

E poi è una storia che racconta lo scollamento tra le amministrazioni, i governi delle nostre città, e la parte viva e attiva della cittadinanza. Nessuno contesta la legittimazione giuridica dei sindaci a decidere e a fare quel che hanno deciso. Ma quando un elenco infinito di associazioni e singoli perugini capaci di raccogliere in poco tempo 1500 firme di cittadini chiede in modo argomentato di ripensare un progetto che stravolge per sempre un bene comune che appartiene anche a chi non è ancora nato, ebbene forse sarebbe il caso di sostare, e di ascoltare.

Gianfranco Maddoli, insigne storico greco e già sindaco della città nella tramontata stagione dei professori, ha parlato di arconi “stuprati” da escrescenze in cemento aggettanti, e lo storico medioevale Franco Mezzanotte ha definito l’operazione “un’imbecillata”, nel senso etimologico di persone che procedono sine baculo, cioè senza sostenersi col bastone della ragione. E la esemplare petizione lanciata da Primo Tenca, presidente della Società perugina di Mutuo Soccorso, non è certo ispirata da un immobilismo preconcetto: “Gli Arconi richiedono la massima attenzione nel restauro e, ancor prima, nella scelta di un utilizzo compatibile con la loro natura. Il tema del loro riuso – ripensato assieme a quello degli altri contenitori materiali e immateriali di valore identitario – necessita di una visione complessiva da parte di chi è chiamato a decidere le sorti dello spazio urbano nel lungo periodo. Ciò non significa che, oggi, non si debba o si possa più proseguire nella strada dell’innovazione, ma significa che ‘mettere le mani’ su di un tale coacervo di monumentalità comporta ineludibili cautele, che non è in alcun modo possibile disattendere. La conoscenza degli Arconi, la loro salvaguardia e il loro utilizzo richiedono, pertanto, particolare attenzione”. Non si sarebbe potuto davvero dir meglio: peccato che l’amministrazione comunale abbia fatto l’esatto contrario. E così a Perugia la scervellata guerra tra presente e passato conta i suoi caduti: gli Arconi.

FQ | 3 dicembre 2018

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