Il restauro del soffitto ligneo decorato di Palazzo Chiaromonte-Steri. Realizzato dall’Università di Palermo, un complesso intervento sul gioiello della Sala Magna, che rappresenta il meglio della cultura feudale siciliana nell’autunno del Medioevo. Studiato da Ferdinando Bologna in un felice libro del 1975, costituisce il fuoco ideale di un assetto urbanistico «a venire» della Kalsa
Claudio Gulli, Alias, 10-2-2019

Circa un secolo fa, se avessero chiesto ad Antonino Salinas quale fosse
secondo lui la giusta destinazione d’uso dello Steri, l’illustre
archeologo non avrebbe avuto dubbi. Il trecentesco palazzo dei
Chiaromonte doveva divenire un museo. Durante tutta la sua vita, Salinas
ha lamentato la ristrettezza degli spazi per il Museo Nazionale da lui
diretto – e che oggi porta il suo nome. E fu ben poco ascoltato anche
quando propose di ospitare allo Steri una sezione dedicata
all’archeologia e al Medio Evo. Ma se anche fosse stato deciso di
realizzare un museo allo Steri, diciamo verso il 1890, un dibattito
cólto si sarebbe prodotto sui criteri museografici cui attenersi. Sul
punto infatti, un altro gigante della cultura ottocentesca palermitana,
Giovanni Battista Filippo Basile, avrebbe contraddetto il direttore.
L’architetto del Teatro Massimo avrebbe visto volentieri allo Steri un
museo come il South Kensington, un «Museo Artistico Industriale», legato
alle Esposizioni Nazionali e meno schematico del modello tedesco che
Salinas aveva in mente. E quando a Basile senior fu chiesto di
progettare la piazza Marina, che sorge di fronte al cubo trecentesco
dello Steri, lui si inventò uno square-garden, tanto era
fissato con le idee inglesi. Queste posizioni si riverberavano in
articoli e commissioni ministeriali, ma a inizio Novecento lo Steri
perse una prima grande occasione. Al primo piano, né furono sistemate le
collezioni nazionali, né si fece un museo di arti decorative. Le sale
trecentesche accolsero invece le camere di udienza della Corte di
Appello – una destinazione smantellata solo nel 1958.
Da qualche tempo infatti, era in atto una riscoperta, soprattutto del
grande soffitto, dipinto fra 1377 e 1380 da tre pittori che si firmano
Cecco di Naro, Simone da Corleone e Pellegrino Darena da Palermo. Questo
straordinario documento della cultura medioevale – circa ventisette per
otto metri di tavole dipinte – aveva conosciuto notorietà europea a
partire dalla metà dell’Ottocento. Inglesi e francesi che vedevano
nell’Alhambra una quintessenza dell’arte applicata non potevano che
trovare allo Steri valide risposte per i loro occhi. Chi si formava in
Sicilia in clima postunitario, spendendo la vita fra restauri, archivi e
biblioteche – parlo di Gioacchino Di Marzo –, vedeva invece nel
soffitto l’espressione figurativa di quei baroni, i Chiaromonte, che
avevano per secoli tenuto la Sicilia sotto il giogo della feudalità. Ma i
Chiaromonte non erano né gli Sforza né i Gonzaga, e infatti lo Steri,
anche come dimensioni, non è proprio il Castello Sforzesco o il Palazzo
Ducale di Mantova.
Gli spagnoli decapitarono Andrea, l’ultimo esponente della famiglia, nel
1391, proprio davanti la sua residenza. A riprova del loro dominio sui
baroni siciliani, i regnanti si insediarono nel palazzo, che al tempo di
Martino il Giovane dovette avere un fascino quasi almohade, con
giardini, aranci e fontane, tuuto elaborato sul modello delle residenze
reali sparse fra Sardegna e Catalogna. Per breve tempo, toccherà ai
Viceré prendere possesso del palazzo, ma per secoli lo Steri sarà
soprattutto la sede dell’Inquisizione, con tanto di uffici, tribunali,
celle, carceri, torture ed esecuzioni capitali. Le carceri con i
graffiti sono ormai un punto imprescindibile di chi visita lo Steri, e
anche nel mondo degli studi si registrano preziosi avanzamenti, come
dimostra il libro, fresco di stampa, sulle Parole prigioniere. I graffiti del Santo Uffizio di Palermo (a cura di Giovanna Fiume e Mercedes García-Arenal, Istituto Poligrafico Europeo, pp. 312, euro 17,00).
Eppure, figurativamente, il palazzo è in gran parte rimasto bloccato al
Trecento, grazie soprattutto al soffitto ligneo della Sala magna, che
riporta chiunque vi entri all’epoca dei Chiaromonte. Chi vuole saperne
di più deve ancora rileggersi la monografia del 1975 di Ferdinando
Bologna: Il soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermo e la cultura feudale siciliana nell’autunno del Medioevo,
per Salvatore Flaccovio – libro della stagione più felice, sia
dell’autore che dell’editore. Bologna ha notevolmente ampliato i termini
dello spettro di circolazione culturale del soffitto, individuando non
solo le componenti giottesche (via Napoli) e islamiche (via Maghreb), ma
anche quelle inglesi e francesi, soprattutto per il tramite delle
miniature, a disposizione di pittori e uomini di corte del tempo. Come
in un contrasto, nel soffitto sono rappresentati exempla e
partiti decorativi: usando le storie di Susanna o di Giasone, di Didone o
di Lancillotto, quasi sempre si ruota attorno al tema amoroso, come a
specificare che due nuovi sposi dovranno intendere bene il racconto
morale delle tavole. Un matrimonio documentato è quello fra Manfredi
Chiaramonte e Eufemia Ventimiglia, e Bologna sospettava che si potesse
datare al 1377 – d’altronde, gli stemmi delle due famiglie sono
disseminati per il soffitto, e bene in evidenza sulle quattro fasce
laterali.
Al momento, il soffitto è oggetto di un epocale intervento di restauro,
realizzato dall’Università di Palermo, che comporta la rimozione delle
assi dipinte dalle travi e il trasferimento in un laboratorio allestito
in loco: qui le tavole sono sottoposte a consolidamento, velinatura,
pulitura e ritocco. È quindi una straordinaria occasione di studio, e
questo lavoro meritorio si somma ai numerosi impegni dell’Università sul
fronte dei restauri. Proprio allo Steri, da anni è in corso il recupero
dell’intero complesso monumentale. I restauri dei cortili permettono lo
svolgimento di concerti e giornate di orientamento, mentre nei tanti
ambienti del complesso si tengono mostre e conferenze.
Quando Carlo Scarpa e Enrico Calandra vennero incaricati di progettare
la nuova sede del Rettorato allo Steri, il contesto era ben diverso. La
Kalsa, il quartiere dove sorge il palazzo, era all’abbandono; nonostante
a pochi passi vi fosse Palazzo Abatellis, dove proprio Scarpa nel ’53
aveva sistemato quelle collezioni che Salinas avrebbe volentieri
collocato allo Steri. E quella, per lo Steri, fu un’altra occasione
mancata: la Sala magna venne adibita ad aula conferenze del Rettorato.
Infatti, prima dell’inizio dei lavori, il percorso di visita allo Steri
non contemplava l’apprezzamento del soffitto.
Il giorno dopo il completamento del restauro del soffitto, si produrrà
una nuova opportunità storica, per la città, la sua Università e il
palazzo. Un progetto museografico che sia in grado di ridisegnare il
rapporto fra la Sala magna e l’attuale percorso di visita potrebbe
restituire piena centralità al soffitto. Come il Bargello a Firenze, lo
Steri si riprenderebbe a pieno titolo il posto che gli spetta, nelle
fruizioni dei monumenti palermitani. Quel senso di distanza proprio
dell’architettura chiaramontana – è quasi un castello in città – si
potrebbe smontare ritrovando la connessione del complesso monumentale
con il mare, a meno di cinquecento metri, ma anche con le chiese del
Barocco, con Palazzo Abatellis, con il sublime e poco distante Orto
botanico, con lo Spasimo, e con i tanti altri luoghi della Kalsa che
hanno grande valore culturale, ma poca riconoscibilità.
È più o meno un fatto noto che il progetto museografico più impegnativo
di questo momento storico lo stia intraprendendo l’Università di Berlino
– quella stessa capitale a cui Salinas guardava con tanta ammirazione.
Era la Berlino di Bode, oggi è quella di Neil MacGregor. Ma la stessa
esigenza, di raccontare una civiltà universale, sembra essere sul
piatto, sia a Berlino che a Palermo.