Noi non siamo dei talebani: difendiamo l’arte, bene di tutti
Tomaso Montanari
La garbata lettera dell’importante mercante d’arte antica Fabrizio Moretti sulle esportazioni dei beni culturali dall’Italia, uscita sabato su questo giornale, merita una risposta.
Moretti non è tra i falchi del mercato, quelli che vorrebbero mani libere per esportare anche la cupola del Brunelleschi, riuscendo a smontarla. Ma al tempo stesso egli trova il nostro sistema di tutela troppo restrittivo, poco moderno e vessatorio verso i collezionisti e i mercanti onesti. Vediamo se riesco a convincerlo del contrario. Il nostro sistema funziona così: se possiedo un’opera d’arte con più di settant’anni (prima di Franceschini erano cinquanta: da qui l’uscita del Burri Crespi che ha dato il via al dibattito) e la voglio portare fuori dall’Italia, devo mostrarla a un ufficio esportazioni della soprintendenza. Qua storici dell’arte e archeologi la valutano, e decidono se può uscire o se è “bene culturale”.
Questa dichiarazione è la famosa notifica, che comporta alcuni vincoli: per restaurarla, spostarla, prestarla a una mostra, venderla devo informare lo Stato. Non potrò più esportarla dall’Italia in via definitiva, e, se la vendo, lo Stato potrà comprarla al prezzo per cui dichiaro di venderla. L’insieme delle “cose d’arte” private vincolate forma, insieme a tutte quelle pubbliche, il “patrimonio storico e artistico della Nazione” (art. 9 Cost.), che la Repubblica tutela e tramanda al futuro.
Più alta è la percentuale di ciò che viene notificato, e maggiori sarebbero le ragioni di mugugno dei mercanti: vediamole, allora, queste percentuali secondo gli ultimi dati disponibili (fonte Mibact/Sole 24 ore). Nel 2013 è stata negata l’esportazione allo 0,74 % delle opere presentate agli Uffici, nel 2014 allo 0,56 %, nel 2015 allo 0,39 %. In ciascuno di questi tre anni circa altrettante opere sono state notificate spontaneamente dalle soprintendenze (cioè senza la presentazione all’esportazione, ma grazie alle ricerche dei pochi, eroici funzionari che riescono ancora a studiare nel disastro della tutela italiana). In totale, mai più dell’1,5 % del mercato dell’arte è stato fermato: con queste cifre è difficile sostenere che ci sia una vessazione, uno statalismo stalinista, un accanimento “talebano”. A proposito di quest’ultima parola, sia concesso notare che i talebani (e ora i terroristi dell’Isis) distruggono le opere d’arte, e più spesso le immettono nel mercato illegale occidentale: chiamateci dunque vestali, comunisti, intransigenti. Ma lasciate stare i talebani, per favore.
Moretti afferma poi l’inviolabilità della proprietà privata: ma gli ricordo che (al contrario di ciò che dice l’incommentabile ministro dell’Interno) per la nostra Costituzione la proprietà privata non è affatto sacra, ma sottoposta all’utilità sociale. Non è una costituzione sovietica (come voleva il Berlusconi d’antan) ma ispirata al primato della persona umana, punto di incontro tra comunisti, cattolici e liberalsocialisti.
Se si guarda alla storia, questa idea di limitare la proprietà privata in nome di un più grande bene comune si delinea assai per tempo proprio nel campo del patrimonio culturale. Nel 1167, per dire, il Senato di Roma consente a una certa badessa di trasformare in campanile la Colonna Traiana, che le appartiene, ma impone di non distruggerla: è in proprietà privata, ma la proprietaria non ha il diritto di sottrarla a tutti, pena la morte. Se la Colonna è ancora lì è perché generazioni di italiani hanno creduto che l’“onore pubblico della città di Roma” (così il documento medioevale) contasse più del “terribile diritto” (Beccaria) della proprietà privata. E così trovo ancora sacrosanto che chi ha la sorte di possedere quell’1% di beni culturali che oggi valutiamo “di tutti” si veda mettere dei paletti severi.
Quanto all’idea che l’arte sia universale, e che dunque nulla ci sia di male se un capolavoro esce dall’Italia per andare in un grande museo americano, rispondo con un esempio concreto. È noto che un mercante italiano possiede uno dei pochissimi Caravaggio privati, il Ritratto di Maffeo Barberini: dipinto doppiamente cruciale, per l’autore e il soggetto. Ora non lo può vedere nessuno, e se fosse venduto, per dire, al Getty di Los Angeles sarebbe certo di pubblico dominio. Ma se invece, vincolandolo, resta in Italia, c’è la fondata speranza che un domani venga acquistato dallo Stato e collocato a Palazzo Barberini a Roma, ricomponendo una decisiva unità storica e culturale. La tutela del patrimonio italiano ha sempre avuto uno sguardo lungimirante, capace di misurare i risultati su una prospettiva secolare. Sarebbe, invece, assai utile un serio dibattito pubblico tra storici dell’arte e mercanti sui criteri con cui si decide cosa deve e cosa non deve rientrare in quel famoso 1%, e sui mezzi di cui dotare gli Uffici esportazione perché applichino al meglio quei criteri: che annoverano qualità assoluta, rarità, provenienza accertata e importante, appartenenza a insiemi monumentali e collezionistici esistenti o ricostruibili. Criteri storici, non nazionalistici: fu mostruosa l’esportazione concessa nel 2006 a uno spettacolare quadro di Turner con una veduta di Venezia, così come è inspiegabile l’uscita del sublime Vouet finito a New York.
Se questo dibattito non fosse esistito, o se la risposta fosse stata la totale libertà del mercato, oggi in Italia non ci sarebbe un patrimonio da amare. E i mercanti italiani non avrebbero nulla da vendere.