La luce dell’Afghanistan

Afghanistan, i Buddha affacciati al balcone

di Manuela De Leonardis, Alias, 9-12-2022

Afghanistan, Bamiyan, foto (1923) di André Godard

Parigi, Musée Guimet. Cento anni di ricerche archeologiche in una mostra dalle risonanze letterarie che intreccia reperti e foto delle missioni

Sarà per via dell’altitudine che rende l’aria più rarefatta e conferisce agli azzurri e ai gialli un’intensità vivace, o per le tracce di culture antichissime, nonché per l’accoglienza della popolazione locale, certamente l’Afghanistan è una terra amata dai viaggiatori di tutti i tempi Leggi tutto “La luce dell’Afghanistan”

Insulso come da aspettative: il film su Caravaggio che dipinge le puttane

L’ombra di Caravaggio? Di Caravaggio manco l’ombra

Triestecinema - I migliori film nei migliori cinema nel cuore della tua  città

Il film su Caravaggio di Michele Placido? Dal punto di vista storico-artistico, il solito, trito polpettone di cappa e spada coi tipici cliché: Caravaggio bello e dannato, che dipinge le meretrici e manda la Chiesa su tutte le furie. L’arte? Un pretesto narrativo. Solo un elemento si salva.

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Contro la logica dei “borghi”

Si scrive “Contro i borghi”, si legge “Per i Paesi”

di Filippo Barbera, 5-11-2022, Emergenza cultura

A pochi mesi dall’uscita di Contro i borghi (F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi, Donzelli ed., 2022), è possibile trarre un primo bilancio dell’iniziativa editoriale promossa dall’associazione “Riabitare l’Italia” e curata da chi scrive insieme a Mimmo Cersosimo e Antonio De Rossi. Il libro è stato progettato e scritto con l’obiettivo di suscitare una riflessione aperta e trasparente sulla curvatura che il termine “borgo” è venuto ad assumere nello spazio pubblico. Curvatura nefasta e pericolosa, che se non denunciata e combattuta rischia di annichilire il policentrismo territoriale italiano, riducendolo a una facile e fallace rappresentazione dicotomica.

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Il capolavoro di Pisanello in nuova luce

Il torneo del Pisanello a Mantova. La storia dell’emozionante scoperta di un ciclo spettacolare

Cavalieri impegnati nel torneo

Dipinto in una sala di Palazzo Ducale a Mantova tra il 1430 e il 1433 dal Pisanello, lo spettacolare ciclo del torneo cavalleresco finì presto nell’oblio, coperto da pitture successive. Poi, negli anni ’60 del secolo scorso, l’emozionante scoperta. E oggi per la sala un nuovo allestimento.

“Una delle più importanti acquisizioni nel campo della storia dell’arte nel XX secolo”: così, e giustamente, il direttore del Palazzo Ducale di Mantova, Stefano L’Occaso, definisce la scoperta del ciclo arturiano che uno dei più grandi artisti del primo Quattrocento, Antonio Pisano detto il Pisanello, dipinse in un ambiente della sontuosa reggia gonzaghesca, e del quale s’era da tempo persa la memoria. Le pitture murali del Pisanello, incompiute, erano state coperte nel corso dei secoli, prima nel Cinquecento e poi ancora nel Settecento, e la sala aveva assunto un aspetto completamente diverso rispetto a quello che doveva avere agl’inizi del XV secolo.

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Quando l’amore è surreale: Max Ernst e Leonora Carrington

Leonora Carrington e Max Ernst: la tormentata storia d’amore di due pittori surrealisti

di Federico Giannini e Ilaria Baratta, 11-8-2015

Leonora Carrington, Ritratto di Max Ernst (1939; collezione privata)

Leonora Carrington e Max Ernst, due tra i più importanti pittori surrealisti, furono legati da una tormentata storia d’amore. Ve la raccontiamo sul nostro blog, anche attraverso i loro dipinti.

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Incapacità di leggere lo spazio urbano

Due “ricchi” cavalli di bronzo che violano il vuoto popolare

di Tomaso Montanari, il fatto quotidiano, 10-10-2022

Due enormi cavalli in bronzo sono comparsi all’improvviso in piazza del Carmine, a Firenze. Passeranno, certo. E il problema non è se siano belli o brutti – tanto sono esteticamente e concettualmente insignificanti. Il problema è che fanno parte dello stock di una galleria d’arte, la Oblong Contemporary Art Gallery, che sabato scorso ha aperto la sua nuova sede fiorentina (le altre due sono a Dubai e a Forte dei Marmi…) proprio al Carmine. Nell’occasione, il Comune di Firenze ha pensato bene di trasformare in show room non solo quella piazza, ma anche altre due, piazza de’ Castellani e piazza del Grano.

Ora, la Galleria fa il suo mestiere: e cioè fa marketing dei suoi prodotti, che siano arredamento di lusso per ricchi o che siano “arte” (anche se, a dire la verità e anche un consiglio non richiesto, non so quanto paghi, a Firenze, presentarsi con tanta invadenza, con così poco understatement). Quello che, invece, il suo lavoro non lo fa è il Comune, che confonde spazio pubblico e mercato privato, e dimentica il livello sommo del tessuto urbanistico che è chiamato a custodire. Non ci si stanca di ripeterlo: in una città che ha piazza della Signoria, infilare due statue in una piazza dovrebbe far tremare le vene e i polsi.

E poi le piazze non sono terra di nessuno, e dunque terra di conquista. Sono invece di tutti: e perché continuino ad esserlo, bisogna che non diventino soltanto di qualcuno. È una morale semplice, quella che si insegna ai bambini quando vogliono tenere per sé un bel gioco che appartiene a tutta la classe. Ma è una morale difficile da far valere in un mondo, e in una città, nei quali chi ha più soldi può comprare davvero tutto: anche una piazza, anche la dignità di una storia straordinaria.

Piazza del Carmine, poi, non è una piazza qualunque. Non è un santuario del lusso, è una piazza popolare e operaia fin dalla sua nascita, nel Trecento. Una piazza che all’inizio del Novecento ha visto i primi grandi scioperi generali. Una piazza che ha visto gli atroci rastrellamenti delle madri e dei bambini ebrei da parte dei nazisti, e ha visto i partigiani combattere per la nostra libertà. Una lunga storia di ricerca di giustizia e liberazione: il cui protagonista è il popolo, un popolo povero, che Masaccio – nella Cappella Brancacci della Chiesa del Carmine – ha lì ritratto con una dignità insuperabile. Ed è una piazza ancora viva – vivissima –, non un vuoto da riempire, uno scatolone al quale trovare un senso. In un centro storico che è sempre di più solo una magnifica quinta architettonica di ristoranti e alberghi, l’Oltrarno resiste come quartiere intensamente vissuto e non ancora del tutto gentrificato. E se piazza Santo Spirito è intensamente vissuta da cittadini e turisti insieme, in piazza del Carmine giocano ancora a pallone i ragazzi del quartiere.

Quei due cavalli, dunque, non abbelliscono e non impreziosiscono: occupano, invece, uno spazio che è bello e prezioso proprio perché è vuoto, libero, felicemente inutile. È un fatto estetico, certo. Piero Calamandrei diceva della Toscana che “questa è la terra dove ci par che anche le cose abbiano acquistato per lunga civiltà il dono della semplicità e della misura: i composti panorami che, senza sbalzi di dirupi e asperità di rocce riescono di collina in collina a non ripetersi mai”. Ebbene, non comprendere questa misura, non significa solo non avere occhio, o gusto. Significa non aver capito il senso di questi luoghi amatissimi.

Quando piazza Navona, a Roma, fu finalmente pedonalizzata (come ha fatto, meritoriamente, questa stessa amministrazione comunale, proprio con piazza del Carmine), Cesare Brandi scrisse, sul Corriere della sera, che “sembrava veramente di attendere che non succedesse niente, di gustare questo non evento come un evento miracoloso e nuovo”. Ma a cosa serve, allora, un enorme vuoto urbano? “La città, che è l’espressione stessa dell’uomo, in quanto vive con l’uomo, e fa civiltà, e crea la cultura, la città deve anche poter sospendere l’uomo dal suo flusso ininterrotto di affanni e di lavori forzati”. In città, e in vite, troppo piene, dove ogni cosa serve a qualcos’altro, le piazze vuote sono un profetico segno di gratuità, liberazione, apertura: “come se fosse – scrive ancora Brandi – una festività ignota, qualcosa come un indulto, una sospensione, un miracoloso arresto”.

Per qualche tempo piazza del Carmine non sarà più quel miracoloso non-evento: ma non è in fondo così grave, perché prima o poi i cavalli galopperanno in qualche emirato, e il miracolo tornerà. Più grave (perché temo sia senza via d’uscita) appare questa perdita di capacità di leggere la città delle pietre (l’urbs), di sentirla, di interpretarla. Che è poi anche l’incapacità di leggere la comunità degli umani che la vivono (la civitas).

In fondo, la crisi della politica non viene proprio da qui, dall’oblio collettivo circa il senso della polis?

Sul vulnus alla tutela dell’ambiente effettuato con la modifica dell’Articolo 9

L’art.9 ferito dalla revisione – impossibile – dei principi fondamentali

di Giovanni Losavio, Emergenza cultura 12-10-2022

Le voci risentite, per la verità non numerose (Montanari, Settis, Carpentieri, Severini), che si sono alzate, quando ancora se ne discuteva in parlamento, su questa manomissione dell’art.9, hanno innanzitutto colto il profilo di assoluta novità della proposta revisione che attenta alla integrità del compatto e chiuso tessuto dei principi fondamentali fino ad oggi rimasto intoccato nella settantennale vicenda delle corrive revisioni della costituzione, raramente benefiche. Oggi si è creduto di poterlo e doverlo fare come aggiornamento dovuto alla maturata cultura dell’ambiente, solenne avvio della transizione ecologica. Un precedente molto pericoloso che apre il varco a nuove riscritture con analoghi intendimenti. E la questione pregiudiziale della ammissibilità di mettere a revisione il testo di un articolo dei primi dodici dedicati ai selezionatissimi principi fondamentali è rimasta implicita nello sviluppo delle ragioni per cui la riforma è inutile e sicuramente dannosa. Insuperabili (di recente ci si è provato invano Gianfranco Amendola) gli argomenti sul merito di quell’indebito inserto, il terzo comma, che stravolge il senso del testo originario dove il secondo comma è legato funzionalmente al primo (promuove lo sviluppo della cultura, quindi tutela patrimonio e paesaggio), una sintassi che non lascia spazio ad alcuna integrazione con la letterale enunciazione di un ulteriore principio in un comma aggiuntivo. Sicché quel terzo comma è messo lì per riformulare integralmente l’articolo 9 e modificare il senso del secondo comma come lo abbiamo ricevuto nella consolidata lettura che ne ha dato la corte costituzionale con numerose pronunce.

Lo ha con franchezza spiegato nella intervista che il 6 settembre ha reso a Repubblica il loquace presidente della corte costituzionale (alla vigilia della conclusione del suo mandato di giudice) che riconosce nella riforma il necessario superamento della identificazione tra ambiente e paesaggio e della sua conseguenza precisa. “Oggetto della tutela costituzionale era soprattutto il bello, l’equilibrio perfetto tra la natura e l’opera dell’uomo”. Sono queste le pressoché testuali espressioni della legge 1497 del 1939 sulle bellezze naturali, inadeguate a rendere la nozione del paesaggio dell’art.9 (che non si è limitato a costituzionalizzare la tutela di quella legge nella quale invano ricerchiamo lo stesso lemma paesaggio): la nozione del paesaggio come l’aveva altrimenti saputa intendere la corte costituzionale. Dissenting opinion quella del suo presidente. Insomma, dice lui, il testo originario dell’art.9 deve essere riformato perché esprime una “accezione di ambiente molto diversa da come oggi la intendiamo, l’atmosfera in cui la vita è possibile, un insieme di equilibri da cui dipende la nostra salute e la stessa sopravvivenza della specie. E l’ambiente in questa accezione è entrato [con la riforma, deve intendersi] nella costituzione accanto alla tutela del paesaggio”. La riforma rompe dunque intenzionalmente la unità paesaggio/ambiente (inscindibile endiadi) e rende inesorabile il conflitto. Che Amato confessa di aver vissuto personalmente nelle colline toscane, risolto con le pale eoliche messe a sfondo dei cipressi che a Bolgheri. Anche lì ha ceduto il paesaggio, non poteva che finire così.

Il terzo comma dell’art.9 non aggiunge dunque un ulteriore principio a quelli fondativi della repubblica, che rimarrebbero in ipotesi non incisi, rispettati nella loro pregnanza. Al contrario, lo ha colto infine Amato, la riforma riconduce a una diversa dimensione prescrittiva il principio della tutela del paesaggio come originariamente era stato dettato dalla assemblea costituente nel secondo comma dell’art.9 e come è stato inteso nella attenta cognizione della corte costituzionale. Sorprende che il suo presidente ne svaluti la complessa elaborazione, non solo, ma insieme neghi la attitudine del testo costituzionale (saputo intendere dalla moderna sensibilità dell’interprete) a corrispondere alla esigenza di adeguamento alla maturata coscienza dei valori.

A far oggetto di revisione l’art.9 ci aveva già provato, come è ben noto, la XIV legislatura per portare la tutela dell’ambiente dentro i principi fondamentali, proponendo dapprima l’inserto della espressione “ambiente naturale” nel secondo comma, primo elemento del plurimo complemento, ambiente naturale, paesaggio, patrimonio. Anche allora Italia Nostra motivò le ragioni che si oppongono alla manomissione del più bell’articolo della costituzione come lo aveva accreditato, si ricorderà, il presidente Ciampi e a lui l’associazione fece allora riservatamente giungere le osservazioni che aveva illustrato nella audizione della commissione del Senato. Facendo affidamento che il presidente, pur attenendosi alla sua regola di non interferire nei lavori parlamentari di formazione delle leggi, trovasse tuttavia il modo e la occasione di esprimere il proprio convincimento su quella iniziativa revisionista. E Ciampi la trovò nel suo viaggio negli Stati Uniti del novembre del 2003, e nel discorso che tenne alla National Gallery di Washington ritornò sul suo amato art.9, sottolineando la stretta interdipendenza dei due commi, come valore intoccabile disse così (riprendendo pressoché alla lettera un passaggio delle ricevute osservazioni di Italia Nostra). Fu una raccomandazione indiretta, subito registrata come tale dal relatore al progetto di legge alla camera dei deputati e l’assemblea ritenne di doverne tener conto, ma se la cavò lasciando integro il secondo comma e affidando a un terzo comma il principio integrativo autonomo della tutela del paesaggio, con la espressione che sarà quasi testualmente ripresa nel testo di questa revisione 2022. Ci sarebbe stato allora tutto il tempo per concludere entro la stessa legislatura (dal 2003 – prima lettura – al 2006) il pur complicato procedimento di revisione, che non venne invece alla sua fine e credo che quella autorevole raccomandazione non sia stata ininfluente sul tacito insabbiamento, come si dice, della proposta.

L’eccezione di inammissibilità, pregiudiziale alla considerazione nel merito della riforma che modifica il principio della tutela del paesaggio, apre alla prospettiva verso il sindacato di legittimità della Corte Costituzionale sulla legge di revisione approvata definitivamente dal Parlamento nel febbraio scorso e trionfalmente dalla Camera dei Deputati in conclusiva lettura con un solo voto contrario. Mai la corte costituzionale (con la dottrina unanime fin dalle primissime esegesi, Mortati) ha dubitato che il proprio sindacato di legittimità comprendesse le leggi costituzionali e quelle stesse di revisione costituzionale (anche se mi pare che mai si sia dovuta misurare con la contestazione/sospetto di legittimità di una specifica legge di revisione costituzionale) soggette tutte, leggi costituzionali e di revisione, al rispetto dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” ai quali implicitamente si estende la limitazione posta al potere di revisione dall’art.139 per la “forma repubblicana”: che necessariamente si sostanzia negli essenziali e originali connotati disegnati e storicamente definiti dalla assemblea costituente nel solenne testo introduttivo dei principi fondamentali. Su quei principi è nata e si è costituta la repubblica voluta nel referendum del giugno 1946 e non sarebbero fondamentali se fossero oggetto di possibile revisione, sono funzionalmente immutabili, insuscettibili di essere riformati, perché ne sarebbe alterata la stessa forma repubblicana come storicamente concepita dai costituenti. Sono dettati per sempre, eis aei, perché la Repubblica è stata fondata così e riscrivere anche uno soltanto di quei principi è un attentato al loro compito e può dirsi perfino, in una considerazione che non sia quella propria della disciplina giuridica, che così si consumi un falso storico. I principi fondamentali differiscono quindi funzionalmente rispetto alle consecutive disposizioni del testo costituzionale, suscettibili esse di adeguamento al nuovo e di formare oggetto di riconsiderazione nei modi della revisione. Che è vincolata in ogni caso al rispetto dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” espressi innanzitutto, ma non solo, negli stessi testuali principi fondamentali. Per la più esplicita motivazione del convincimento della Corte costituzionale è generalmente richiamata la sentenza (n.1146 del 1988) data sul dispositivo di uno degli statuti speciali della Regione Trentino-Alto Adige che hanno valore di legge costituzionale. Rigettando la eccezione di inammissibilità sollevata dalla avvocatura dello stato, la corte ci dice: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale quale la forma repubblicana (art.139), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati tra quelli non assoggettabili a procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la costituzione italiana. Se così non fosse, conclude la Corte, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle norme di più elevato valore” (la questione di legittimità affrontata in quella sentenza era posta in rapporto al principio di eguaglianza dell’art.3). Digiuno come io sono dei dedicati studi disciplinari, commetto l’azzardo di identificare, impiegando i comuni strumenti critici di lettura di un testo di scrittura, negli intoccabili principi supremi quelli che la costituzione esplicitamente riconosce come fondamentali e pone nella introduzione delle due consecutive parti dedicate ai diritti e ai doveri dei cittadini e all’ordinamento della repubblica. Sarebbero vanamente fondamentali se offrissero alla pretesa di revisione il medesimo grado di resistenza di ogni altra disposizione costituzionale. So bene che la questione è controversa e che maggioritario tra gli studiosi dedicati è il rifiuto della identificazione (perché espressione si dice di cieco automatismo) dei supremi principi nei testuali principi fondamentali, un rifiuto che non è però motivato sul riscontro critico dei contenuti di ogni specifico articolo dei primi dodici, né dirimente a me pare l’unico argomento, addotto a campione si direbbe, fondato sulla considerazione dell’art.12 che ha mero contenuto descrittivo della bandiera della repubblica come tricolore e non enuncia quindi a rigore alcun principio (ma c’è chi invece anche all’art. 12 non nega la dignità di supremo principio). Certo è che non abbiamo letto alcuna esplicita motivata negazione della attitudine del dettato dell’art.9 (come letto dalla corte costituzionale) a integrare in sé un supremo principio, e pure è certo (ce lo ha spiegato il presidente uscente della Corte costituzionale) che il terzo comma è stato messo lì dalla revisione per contrarre il contenuto prescrittivo della tutela del paesaggio come la aveva voluta il costituente.

Il dibattito parlamentare che ha condotto ai quattro voti non si può francamente dire che non sia stato ampiamente partecipato, essendosi anche giovato della consultazione di costituzionalisti di gran rango chiamati in audizione, consultazione unanimemente data a sostegno della riforma nel merito, anche con argomenti di tutto rispetto (come quelli di Gustavo Azzariti – ci ritornerò in conclusione tra breve – che ha scritto e pubblicato nel 2016 pagine molto belle contro il revisionismo costituzionale). Ma la lettura degli atti parlamentari (frettolosa però la mia) ci dice che la discussione non si è fermata affatto a considerare l’assoluta novità della iniziativa di revisione diretta, come mai fino ad oggi, su un principio fondamentale, per riflettere sul problema della relativa ammissibilità e dare in ipotesi una motivata risposta affermativa. E neppure dai servizi studi di Camera e Senato il tema è affrontato. Speciale interesse ha il rapporto dell’Ufficio del Senato che dà diffusamente conto della lettura espansiva della tutela del paesaggio costituzionalmente sancita dall’art.9, declinata dalla giurisprudenza costituzionale come tutela paesaggistico-ambientale e riprende le significative espressioni delle più recenti pronunce della Corte là dove (in particolare la sentenza n.179 del 2019) si fa riferimento al “processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale”. Argomenti che a rigore avrebbero dunque dovuto convincere della inutilità della riforma del principio di tutela del paesaggio come oggi lo si deve intendere, idoneo a offrire esauriente protezione a tutti gli interessi ambientali, voluti invece fare oggetto di un autonomo principio inevitabilmente speso in funzione conflittuale, sicché dannosa la riforma che rompe la unità concettuale paesaggio/ambiente. Come ineccepibilmente avevano dimostrato nel loro tempestivo saggio Carpentieri e Severini. Mi ero riservato di ritornare brevissimamente in conclusione sul parere di incondizionata adesione alla proposta motivato da Azzariti, lo studioso contro il revisionismo costituzionale, che qui riconosce una riforma nel segno della attuazione costituzionale, con efficacia innovativa, non meramente ricognitiva della evoluzione della legislazione ordinaria, che introduce un nuovo principio di tutela dell’ambiente fondato sulla impegnativa idea di sviluppo ecosostenibile (non più basato sulla priorità economico-finanziaria o genericamente postulato sostenibile); la collocazione del compito di tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali porta all’emancipazione del bene ambientale dalla visione esclusivamente proprietaria e antropocentrica, legata cioè all’uso dell’ambiente utile al singolo o alla collettività per integrare questa visione in quella oggettiva del bene inteso come bene comune, da preservare cioè come bene in sé e per assicurare l’ecosistema all’attuale generazione e a quelle future (in una dimensione di doverosità legata alla solidarietà intergenerazionale). Una riforma necessaria che valga – ecco il punto – a impedire l’elusione del diritto all’ambiente, dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria di legittimità riconosciuto in via di principio come valore primario e assoluto, ma attraverso l’impiego improprio della tecnica di bilanciamento, esposto alla soccombenza nel confronto con ogni altro diritto costituzionalmente protetto, come il diritto di impresa e quello del lavoro. Così è in pratica avvenuto nel caso della Ilva di Taranto, avendo la Corte costituzionale – denegata giustizia costituzionale, osserva Azzariti – rimesso il bilanciamento al legislatore ordinario. Si tratta insomma dell”attesa riforma capace di conferire la forza che spetta nell’ordine costituzionale al valore dell’ambiente nel bilanciamento con ogni altro valore pur costituzionalmente protetto. Una legge di riforma che è dunque nel segno, come si diceva, della attuazione costituzionale. Nello schema costruito da Azzariti rimane del tutto assente, come si vede, la considerazione del valore-paesaggio con il quale l’ambiente, riconosciuto che sia oggetto di autonoma tutela, deve misurarsi e entrare nel bilanciamento; ma assente innanzitutto la considerazione di quello sviluppo della giurisprudenza della corte costituzionale che aveva saputo fondare sul principio dell’art.9 anche in rapporto all’art.32 la esauriente tutela dell’ambiente. E se nel caso dell’Ilva la tutela dell’ambiente è rimasta soccombente non fu in ragione di una presunta debolezza del principio, ma, come riconosce lo stesso Azzariti, per essersi la Corte sottratta con quella decisione al suo compito.

Insomma, e per concludere in fretta, l’attentato all’integrità del principio fondamentale (e supremo dell’ordinamento costituzionale) dell’art.9 nulla aggiunge alla efficacia della tutela dell’ambiente, ma gravemente attenua il vigore della protezione riconosciuta al paesaggio. E rimango convinto che si tratti di questione che possa e debba essere portata al sindacato della Corte Costituzionale.

La Tempesta di Giorgione tra natura e mito

Torna il rebus Tempesta fra naturalismo e soggetto

di Stefano Pierguidi, Alias, 11-9-2022

Giorgione, “Tempesta”, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Marco Ruffini, “Pittura e soggetto. Il caso della Tempesta di Giorgione”, Campisano. Una nuova ipotesi tematica per il capolavoro, ma soprattutto l’analisi di come differissero, rispetto al problema «narrativo», tradizione veneta e tosco-romana

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Il primo reportage fotografico della storia: la Repubblica francese assedia la Repubblica romana

Roma, 1849. Il primo reportage di guerra della storia, opera del fotografo Stefano Lecchi

da Finestre sull’arte, 31-8-2022

Stefano Lecchi, Sentinella francese tra il Vascello e i Quattro Venti (1849; carta salata da calotipo, 161 x 224 mm; Roma, Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea)

Nel 1849, il fotografo milanese Stefano Lecchi è a Roma dove documenta le distruzioni che Roma ha subito durante l’assedio dei francesi, chiamati da papa Pio IX per abbattere la Repubblica Romana e ripristinare il suo potere: è il primo reportage di guerra della storia.

Il primo reportage di guerra che si conosca porta la firma di un fotografo italiano di cui abbiamo poche notizie, Stefano Lecchi (Milano?, 1803 – post 1866). Si tratta di un insieme di fotografie che Lecchi realizzò nel 1849 mentre si trovava a Roma: in tutto, il nucleo, oggi conservato alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, è costituito da 41 carte salate al bromuro di iodio. Quarantuno stampe fotografiche che illustrano altrettanti luoghi di Roma che, tra il 1848 e il 1849, furono teatro dei combattimenti che determinarono la caduta della Repubblica Romana, il giovane Stato nato il 9 febbraio del 1849 dopo i moti del 1848 e finito il 4 luglio di quell’anno, a seguito dell’assedio, durato un mese, da parte dei francesi guidati da Nicolas Charles Victor Oudinot, intervenuti in aiuto di papa Pio IX dopo un suo esplicito appello alle potenze straniere, affinché al pontefice venisse restituito il potere temporale.

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I bronzi di Riace

I Bronzi di Riace. Storia dei due capolavori della scultura greca

Artista ignoto, Bronzi di Riace (V secolo a.C.; bronzo, 198 cm la Statua A - a sinistra - , 197 cm la Statua B - a destra; Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale)

I Bronzi di Riace, rinvenuti nelle acque di Riace in Calabria il 16 agosto del 1972, sono due capolavori della scultura greca del V secolo a.C.: tutta la loro storia, le possibili identificazioni, quello che sappiamo di certo su queste due misteriose sculture. Leggi tutto “I bronzi di Riace”